Dusy e quella Fiume che non c’è più
L’indirizzo riportava “Via Milano 15, Stato libero di Fiume”. Era il 1922, il trattato di Rapallo era stato firmato due anni prima e Fiume non era ancora diventata italiana ma rimaneva in un limbo. Nel settembre di quell’anno nasce Maddalena Dusy Werczler.
Magdalena, Magdus, Magdusy. Dusy per tutti gli affetti.
È una bambina bellissima, esuberante e piena di vita. Le lezioni di pianoforte, i giochi con gli amici davanti a casa, le passeggiate per il Corso di Fiume con tutti i ragazzi che la guardano.
Il fratello Tibor, di due anni maggiore, la veglia a distanza per tenerla fuori dalle grane. La vita a Fiume è tranquilla per gli ebrei, le amicizie sono miste, non ci sono palesi discriminazioni. Ogni Shabbat i Werczler si recano nella grande sinagoga Neolog di via Pomerio dove incontrano gli amici. Alcuni ebrei più religiosi si staccano agli inizi degli anni ’30 e inaugurano un Bet haKnesset ortodosso poco distante dalla sinagoga monumentale. Verso la fine degli anni ’30 ma prima della promulgazione delle leggi razziste, si apre uno spiraglio per un affidavit per l’America e Tibor parte; Intanto nel 1934 era nata la sorellina Rita.
La vita procede serena con un bel negozio di moda per signora in pieno centro, papà Eugenio e mamma Bertha ci lavorano con passione.
Nell’autunno del 1938, come per tutti, scende la scure. Dusy è costretta a lasciare il suo liceo e a finire il percorso di studi privatamente. Molte foto la ritraggono bellissima in un costume già a due pezzi sulla spiaggia di Abbazia, a 10km da Fiume. Sorrisi, abbraccio, una gioventù che non vuole sottomettersi al giogo antisemita che pendeva sulle loro teste.
L’otto settembre 1943 coglie mamma Bertha a Firenze, era lì per ordinare abbigliamento da rivendere poi a Fiume. Bertha è una donna decisa, il 12 settembre parte, in un’Italia allo sbando, verso Fiume dove l’esercito tedesco era già entrato. Una volta a Fiume convince figlie e marito a partire per Firenze per tentare di raggiungere gli alleati. Lungamente prova a convincere anche i fratelli del marito a seguire il loro esempio, ma purtroppo loro non sentono così vicino il pericolo e non lasciano Fiume. Verranno tutti deportati e nessuno tornerà.
I documenti d’identità emessi dall’ufficio postale di Fiume nel maggio del ’43 a loro nome non riportano la scritta “Di razza ebraica”. Con quei documenti trovano alloggio in un albergo a Firenze dove rimangono fino al febbraio 1944. Fiutando il pericolo e non potendo proseguire verso sud, scappano a Milano dove si rifugiano in attesa di contattare i contrabbandieri che li avrebbero portati in Svizzera.
Il primo tentativo avviene il 29 febbraio 1944, data difficile da dimenticare. Si cammina nella notte con la neve, al buio per i monti. Due genitori invecchiati precocemente a causa delle preoccupazioni, una giovane donna 22enne (Dusy) e una sorellina di poco più di 9 anni. Prima del confine i contrabbandieri scappano e loro sono costretti a rientrare a Milano. Il passaggio riesce invece il 13 marzo; per 4 persone i Werczler sono costretti a pagare 57.000 Lire, una cifra enorme.
Dopo aver atteso davanti al filo spinato che la guardia elvetica diradasse le perlustrazioni notturne i Werczler, gli Eisler e i Tedeschi scivolano sotto il filo spinato e arrivano in Svizzera.
Vengono subito fermati e portati in caserma. Lì i loro averi vengono listati e spediti a una banca come fondo per garantire le spese di permanenza nella Confederazione.
A guerra finita Dusy è già una donna fatta. Una donna intraprendente che vuole conoscere la verità sul fratello, di cui non riceve più notizie da anni. Riesce a parlare con un generale americano che le promette di fare delle ricerche. Al rientro dalla Svizzera la Comunità ebraica di Fiume è scomparsa, gli amici non ci sono più e la stessa città sta cambiando, non è più una città italiana. In modo rocambolesco riescono a ritrovare qualche effetto personale e qualche bene appartenuto ai parenti deportati. Si trasferiscono a Trieste dove li aspetta una dolorosa lettera del generale che Dusy aveva conosciuto in Svizzera. Nella lettera viene comunicato che il soldato americano Tibor Werczler era stato ucciso durante lo sbarco alleato ad Anzio. Mamma Bertha non si riprenderà più da quella notizia. Dusy trova lavoro presso il Governo Militare Alleato (GMA) e riesce a mantenere la famiglia, suo padre intanto riapre un piccolo negozio a Trieste.
Una gioventù stroncata dagli eventi negli anni che sarebbero dovuti essere i più spensierati, un matrimonio non fortunato nel dopoguerra, sono le basi su cui si fonda il proseguo della vita di questa coraggiosa donna che non si è piegata davanti a nulla.
Mahler, il suo Mahler è la sua colonna sonora. I suoi acquerelli nei quali abbozza porticcioli delle penisola istriana, luoghi a lei così cari, la sua attività Adei nei primi anni ’80, i familiari e i tanti amici sono stati il suo mondo.
Una donna laica dai profondi sentimenti religiosi. Rimarrà per sempre nelle mie orecchie la frase sussurrato al telefono ogni venerdì mattina: “Stasera vado ad accendere le candele in casa di riposo ai vecchietti con rav Piperno” (molti di quei vecchietti erano più giovani di lei), ci vediamo domani mattina in Shul. A git shabbos”
Un Git shabbos perenne a te Dusy, amica mia, ti voglio bene e sempre te ne vorrò. Mi hai insegnato tanto.
Mauro Tabor, Consigliere UCEI
(14 aprile 2017)