Periscopio – Venti di guerra
La recente iniziativa militare assunta dall’amministrazione statunitense nei confronti della Siria, e gli inquietanti venti di guerra che si stanno levando intorno al Sud Est asiatico, in relazione alla deriva bellicosa e provocatoria presa dalla dinastia regnante di Kim Jong-Un, sollevano, ancora una volta, gli eterni quesiti intorno alla legittimità dell’uso della forza nei conflitti internazionali, anzi, più in generale, al rapporto tra forza e violenza, da una parte, pace e diritto, dall’altra.
Inutile dire che i due scenari – Siria e Corea – sono molto diversi. Nel primo caso, siamo di fronte a un regime indiscutibilmente criminale, che fa un uso sistematico – lungo una linea di ininterrotta continuità, che dura da ormai settant’anni – di una brutale violenza, tanto verso l’esterno quanto – soprattutto – verso l’interno, contro i propri stessi cittadini. Nel secondo caso, c’è una casata regnante di irresponsabili dittatori – apparentemente, di padre in figlio, tutti incredibilmente uguali -, prigionieri della loro stessa follia, che, pur di continuare ad esercitare il loro potere – fondato esclusivamente sull’oppressione e il terrore – non esitano, condannando la loro popolazione alla più nera miseria, a sfidare il mondo e a giocare col fuoco, in un paranoico progetto di distruttiva megalomania. I nordcoreani non hanno nulla da mangiare, perché tutte le poche risorse del Paese sono investite per fabbricare missili nucleari intercontinentali e rampe di lancio. Li useranno, prima o poi? Non si capisce se la follia sarebbe maggiore in caso di risposta affermativa o negativa.
La situazione di Damasco, tra le due, appare oggettivamente più complicata, dal momento che sulla martoriata terra siriana combattono, contro Assad, forze terroristiche indubbiamente pericolose, la cui avanzata rappresenterebbe certamente un elemento di tragico allarme. Il paffuto e sorridente Kim, invece, non pare avere altri “cattivi” contrapposti.
È possibile, è lecito, è immaginabile, in una delle due situazioni, o in entrambe, prendere in considerazione l’uso della forza militare per porre un termine alle violenze, o per sventare le incombenti, terribili minacce future?
È evidente che una risposta a una siffatta domanda non può mai essere semplice, essendo collegata a un complesso e delicato calcolo di rischi, di rapporto tra prezzi e benefici e, soprattutto, a una lucida consapevolezza di quali siano gli obiettivi perseguibili e desiderati. È davvero possibile abbattere questo o quel dittatore? E a che prezzo? Ma è proprio sicuro che tutti lo vogliano? E, ammesso che ci si riesca, chi mai andrà al posto suo? È sicuro che verrà qualcuno migliore? E se invece si andasse, come si dice, di male in peggio?
Il problema di fondo, secondo me, è che, se per un dittatore fare una guerra, anche la più sanguinosa e catastrofica, è relativamente facile, per le democrazie la scelta è sempre estremamente difficile, perché i governanti devono rendere conto ai governati, e fare i conti con quella grande “palla al piede” che è l’opinione pubblica. E, hai voglia di avvertire dell’incombenza di un pericolo mortale, la “gente” – soprattutto gli europei -, di sopportare sacrifici, non ne vuole assolutamente sapere, e, anche se si vede puntata una pistola alla tempia, preferisce sempre pensare che si tratti di uno scherzo. L’unica cosa che preoccupa un po’ gli occidentali è il terrorismo, perché può colpire anche loro, nelle loro strade e nelle loro città, quando viaggiano e quando passeggiano, mentre di ciò che accade in scenari di guerra considerati lontani non importa niente a nessuno. Basta non andare da quelle parti, e il problema è risolto. Di spendere un centesimo, poi, per non dire di rischiare la propria pelle, per salvare vite altrui, neanche a parlarne.
Sia chiaro che la scelta di un’azione militare, di qualsiasi tipo, è sempre estremamente seria e drammatica, e va ben valutata nelle sue conseguenze. Quando ci sono in mezzo armamenti atomici, poi, la drammaticità del rischio è terribilmente alta. È una scelta tremendamente seria, e può essere giusta o sbagliata, da approvare o da condannare. Ma deve essere chiaro che anche non agire militarmente, quando pure parrebbe presentarsene la necessità, e se ne avrebbero i mezzi, è una scelta. Diversamente dalla prima, però, essa può essere assunta sulla base di due diverse valutazioni. Se si sceglie di non intervenire perché si ritiene che sarebbe controproducente, si tratta di una scelta ponderata, che, come nel caso opposto, può essere giusta o sbagliata. Terribilmente sbagliata, o – anche – assolutamente giusta. Ma se invece si sceglie di non fare nulla per semplice quieto vivere, infischiandosene di tutto, allora è una cosa diversa, che si chiama ignavia: quella colpa di omissione che, secondo Dante, pur non giustificando le pene del vero e proprio inferno, assicurerà comunque a coloro che se ne siano macchiati (“questi sciaurati, che mai non fur vivi” [Inf. 3.64]), per l’eternità, un supplizio atroce, più crudele dei tormenti a cui andranno incontro i dannati veri e propri (“invidiosi son d’ogni altra sorte” [Inf.]).
Francesco Lucrezi, storico
(19 aprile 2017)