JUDAICA Le cavallette di Menahem
Menahem Recanati / II COMMENTO ALLE PREGHIERE / II Prato
Tra gli animali teologici, la cavalletta può vantare successi di tutto rispetto. Da giovane, ai tempi della lotta tra Faraone e Mosè, ha combattuto convalore. In nugoli fitti come pece, ha divorato, devastato, umiliato, piaga mandata dal cielo per debellare l’alterigia dei persecutori. In versionegastronomica, è poi servita a saziare la famedi Giovanni Battista. Basta condire un pugno di locuste con un po’ di miele selvatico, ed eccovi un piatto degno d’un asceta. Dall’Egitto al deserto della Giudea, si dirà, il volo none così lungo. Se necessario, il sobrio insetto sa dislocarsi nel tempo e nello spazio. Nel Medioevo lo troviamo nella nostra penisola, al servizio dei cabbalisti. Anzi, del più grande mistico ebreo italiano di tutti i tempi, Menahem da Recanati. Nell’introduzione al suo Commento alle preghiere, che ora appare in versione italiana, Menahem usa proprio la cavalletta per una sorprendente similitudine: «Il Creatore, sia Egli benedetto, – scrive il maestro di Recanati- agisce attraverso i suoi attributi, che sono legati a Lui. Per questo motivo i nostri maestri, di benedetta memoria, li hanno chiamati “dieci vesti”, che Egli indossò al momento di creare il proprio mondo». Se siete restati abbacinati da tanta luce superna, non spaventatevi. La locusta è lì per farvi ritrovare la strada. Menahem da Recanati vuol risolvere il problema più complesso e pericoloso della kabbalah. Quando si parla di dieci gradi divini, le enigmatiche sefirot, non si rischia forse di violare l’unicità e la trascendenza di Dio? Se il Signore è uno e unico, perché stemperarlo in una pluralità di gradi e attributi? La risposta di Menahem è che non tutti gli abiti sono uguali. Le sefirot-vesti, indossate dal Creatore, sono a lui unite, indivisibili, e assomigliano in questo alla pelle di una locusta: «Come infatti il vestito della cavalletta non è esterno al corpo di questa, ma emana da essa stessa, così avviene per quelle vesti superne». II paragone è minuzioso, a un tempo quotidiano, anzi umile nel suo soggetto, ed elevato negli intenti. E così, piena di buon senso ma anche ambiziosa nei toni filosofici, è l’esegesi di Menahem, appartenuto alla famiglia Finzi e vissuto nelle Marche tra la seconda metà del Duecento e il primo decennio del Trecento. Dalla sua scuola deriva la tradizione di studi cabbalistici fiorita in Italia centrale nell’autunno del Medioevo. II lettore forse più originale, e indisciplinato, di Menahem non appartiene però al campo ebraico, ma è un irregolare di genio. Nel tardo Quattrocento, Giovanni Pico della Mirandola fa man bassa di segreti mistici dalle pagine del recanatese, per poi riversarli nelle sue azzardate 9oo Condusiones del 1486. Le cavallette cabbalistiche, si sa, fanno salti lunghi e larghi.
Giulio Busi, Il Sole 24 Ore Domenica, 16 aprile 2017