Periscopio – Gerusalemme liberata
Il prossimo 69° anniversario dell’Indipendenza di Israele, com’è noto, cade in corrispondenza di un’altra, fondamentale ricorrenza, vale a dire il 50° anniversario della cd. Guerra dei sei giorni, della schiacciante vittoria riportata dal piccolo Israele contro i suoi numerosi e agguerriti nemici, e della liberazione e riunificazione della città di Gerusalemme. Nonché, com’è parimenti noto, del vile voltafaccia del mondo – e, soprattutto, dello schieramento ‘progressista’, capitanato da quel vessillo di libertà e democrazia che era l’Unione Sovietica -, che, tra i molti aggressori e l’unica vittima, scelse, senza alcun tentennamento, la posizione più facile, incurante del fatto che questa calpestasse i più elementari principi di etica, logica, ragionevolezza. Qualsiasi discorso su una ipotetica pace in Medio Oriente, qualsiasi ragionamento su “due popoli, due stati”, su scambi di territori, su smantellamento di colonie e quant’altro, a mio avviso, non può non partire, cinquant’anni dopo, da una riflessione su ciò che è accaduto in quel giugno del 1967, su quale è stata la posta in gioco, quali le posizioni assunte dalle varie parti in campo. E anche su ciò che sarebbe accaduto, se l’esito della guerra fosse stato diverso (come, secondo ogni ragionevole previsione, avrebbe dovuto essere, considerate le forze in campo). Cosa sarebbe, oggi, il mondo, se Israele, come era nei piani dei suoi nemici, fosse stato sopraffatto e schiacciato?
Per quanto riguarda, poi, segnatamente, la riunificazione di Gerusalemme, mai come in questo caso appare obbligatorio soffermarsi a riflettere sul significato di tale evento, soprattutto da parte di chi, parlando di pace, collega questa abusata e controversa parola all’idea della universale libertà di culto e di coscienza, all’imperativa necessità di far sì che tale libertà sia sempre e dovunque difesa e garantita, e che la religione non sia mai usata come strumento di sopraffazione e coercizione contro diverse forme di credo (secondo l’antico insegnamento di Simmaco, triste simbolo del paganesimo – e della libertà di pensiero – morente, di fronte alla montante, inarrestabile intolleranza cristiana: “suus cuique mos, suus ritus est”). Perché, in questa circostanza, l’insegnamento della storia è uno solo, ed è questo. C’è stato un periodo di diciannove anni, dal 1948 al 1967, in cui i fedeli della più antica religione monoteista si sono visti negare la possibilità di culto innanzi al luogo per loro più sacro, quelle antiche pietre che sono la radice, il simbolo e il sigillo della loro identità spirituale, culturale, nazionale. Nessun ebreo vi si poteva avvicinare. Risorta la patria ebraica, tanti esuli erano tornati nella terra degli avi, e molti anziani lo avevano fatto proprio per potere toccare, almeno un a volta, prima di morire, quell’alto muro silenzioso, che per loro tanto significava. Questa possibilità è stata loro negata. Non si capirà mai il senso della straordinaria immagine del grande David Rubinger, recentemente scomparso – ritraente lo sguardo trasognato e incredulo dei giovani soldati di Tsahal di fronte al Kotel -, prescindendo da questa crudele ingiuria: “siamo qui, siamo tornati”. E siamo tornati anche per quelli che non hanno potuto farlo, a cui è stato impedito di farlo. Non appare difficile esprimere un commento, un giudizio su tale vicenda. E le posizioni possibili sono soltanto due. Chi ritiene che sia giusto negare a qualcuno il diritto di pregare, innanzi ai propri simboli religiosi, può ben rimpiangere il periodo dell’occupazione giordana della Città santa, quando gli ebrei erano tenuti a debita distanza dal Muro del pianto, e da tutta quella città vecchia nella quale avevano ininterrottamente vissuto per millenni (con l’unica eccezione del periodo del regno crociato del 1099), sotto Davide e Salomone, gli Asmonei ed Erode, i romani e i bizantini, gli arabi, i turchi e gli inglesi. Chi invece, dice – in buona o in mala fede – che la libertà di culto deve essere assicurata a tutti, sempre e dovunque, non può non partire dalla mera constatazione che tale diritto è assolutamente garantito, a tutti (ebrei, cristiani e musulmani), esclusivamente dal giugno del 1967, quando Gerusalemme è stata restituita non tanto al popolo ebraico, quanto all’umanità tutta, che può veramente vedere in essa, oggi, e per la prima volta, un simbolo di unità, di apertura, di libertà. Ci sono altri diritti nazionali che devono essere tutelati e presi in considerazione, altre richieste e doglianze che devono essere ascoltate?
Certo, ci sono, ed è giusto che si parli, di discuta, si cerchino soluzioni che tengano conto delle varie esigenze. Prima di farlo, però, sarà bene chiedersi se si vuole parlare e scrivere onestamente, oppure, come al solito, si vuole intingere la penna nel solito calamaio della menzogna e della falsità. E, se si vuole parlare con onestà, occorre partire da due semplici punti fermi, che sono questi: 1°: il legame tra il popolo ebraico è Gerusalemme è scolpito nel cuore stesso dell’identità ebraica, che intorno ad esso si è formata e perpetuata, nei secoli, costruendo il proprio peculiare ponte tra passato e futuro, tra ricordo (“se ti dimentico, Gerusalemme…”) e attesa (“l’anno prossimo, a Gerusalemme”); ogni attacco a questo legame (vedi l’UNESCO) è un puro e semplice atto di antisemitismo; 2°: la libertà di culto, per tutti, è stata garantita, a Gerusalemme e altrove, dopo la seconda Guerra Mondiale, solo sotto la sovranità israeliana. Prima di parlare di cosa Gerusalemme dovrebbe diventare, domani, ricordiamo cos’è oggi, e cos’era ieri. Ricordiamo i continui tiri dell’artiglieria giordana, nell’infausto periodo 1948-67; o, andando un po’ più indietro nel tempo, andiamo a leggere il diario del viaggio in Palestina scritto, nel 1901, dalla grande giornalista Matilde Serao – non ebrea, né sionista -: il diario di un incubo). E chiediamoci se vogliamo andare avanti, o indietro.
Francesco Lucrezi, storico
(26 aprile 2017)