La vita è un complotto
Qualcuno direbbe che il problema di merito è focale, non morale. Per meglio intenderci, non riguarda la sfera dei valori morali, nei quali viene abitualmente inscritta la «verità», ma ciò che si intende prendere in considerazione: letteralmente il fuoco dell’attenzione e, insieme ad esso, il metodo con il quale lo si fa. Sempre più spesso, ai giorni nostri, prima ancora che capire cosa sia «vero» (un riscontro che rimanda al giudizio di valore) è rilevante capire cosa sia «reale» (richiamando il giudizio di fatto). Nella selva di informazioni, di sollecitazioni, di dati spesso convulsamente scaricati sul cittadino inerme, rivestiti di scandalismo per cercare di carpirne l’attenzione (e frequentemente il consenso), è improbabile che il singolo individuo riesca a districarsene con sufficiente consapevolezza. Non ne è ha gli strumenti, non almeno da sé solo, venendo semmai soverchiato da un vera e propria Babele di immagini, raffigurazioni e idealizzazioni. Come in una sorta di catalogo infinito, dove non si sceglie ciò che è veritiero ma quanto sembra meglio rispondere ai gusti del momento. Tutto il dibattito sulla cosiddetta «post-verità», sulla «misinformation» ma anche, più banalmente, sulle «bufale» e sulla deliberata contraffazione delle cose e dei fatti, ruota intorno a questa pericolosissima seduzione che le finzioni esercitano su molti dei nostri contemporanei. Come a volere dire : costruisciti un mondo a tua immagine e somiglianza, magari cementato dalla rabbia e dal risentimento contro qualcosa o qualcuno. Sessismo e razzismo, falsa conoscenza e rancorosità ne sono un cemento a prova di qualsiasi riscontro, quindi inscalfibili. Norman Mailer soleva osservare, seguendo per la rivista «Esquire», passo dopo passo, la convention democratica che incoronò entusiasticamente nel 1960 John Fitzgerald Kennedy a candidato alla presidenza statunitense, che «i misteri sono irritati dai fatti». Anche per tale ragione, non rispondendo alla domanda di (falsa) coerenza che qualsiasi teoria cospirazionista o visione complottistica della storia invece reclamano, la prima così come la seconda dei fatti ne fanno volentieri a meno, sostituendo ad essi dei contro-fatti, allineati in rigida successione e totale congruenza. La graniticità delle costruzioni cospirative è di per sé un “fatto” in quanto tale, ossia una sorta di evento totale, che esiste indipendentemente da qualsivoglia verifica, come dato oggettivo a sé, contro il quale, prima o poi, si va sbattere, e che non è possibile scalfire con la logica argomentativa. Poiché ha una sua logica, basata sulla ricorsività, sulla ripetizione, sulla semplificazione ma anche sulla consequenzialità, così come anche su di un codice ferreo, che si comprende meglio nel suo definirsi in quanto paradigma morale: “noi, non solo raccontiamo le cose per come sono accadute per davvero, di contro alla versione che vi è invece imposta, conculcata, propalata, ma denunciamo il fatto che gli altri, quelli che parlano in veste pubblica, i quali ripetono una verità falsa perché istituzionale, ossia congruente ai giochi di potere, sono degli impostori belli e buoni”. Per il complottista l’unico fatto vero è che la disposizione delle cose è di per se stessa un complotto in quanto tale. Improbabile, quindi, che non ci sia chi si senta chiamato in causa da un appello di tale fatta, che si ammanta di “conoscenza” totale, disvelatrice. Quando in verità ha, al suo dunque, nel suo interno nocciolo, la vocazione a fingere di volere fare una rivoluzione, la “rivoluzione” delle coscienze, che sarebbero intorbidate, annebbiate e annichilite dalle mene dei “poteri forti” e che come tali dovrebbero essere “liberate”, nel mentre si comporta, a stretto giro, in maniera esattamente opposta. Dietro il costrutto del complotto – infatti – c’è ben altro, ed è l’intenzione di distruggere la complessità dei fatti, e non solo di quelli storici, leggendoli come il prodotto di una deliberata manipolazione. La storia stessa, nella sua natura, nel suo essere costitutivo più intimo, sarebbe il mero campo della contrapposizione tra forze occulte. Nulla di meno, niente di più. Ciò dicendo, si toglie ad essa qualsiasi respiro. Non di meno, si sottrae al conflitto tra interessi dichiarati qualsivoglia autonomia. Non è un caso, quindi, se le teorie del complotto siano, al medesimo tempo, quasi sempre antiliberali nonché antisemite. Del liberalismo storico avversano sia l’importanza dell’individuo, come soggetto capace di decidere per sé ed in sé, situato in una rete di relazioni che lo condizionano ma non necessariamente lo soverchiano, sia la matrice conflittualista, per la quale è la contrapposizione negoziata – e quindi manifesta – tra posizioni, ruoli, idee e interessi distinti a fare la storia, soprattutto in senso evolutivo. Il complottismo, pertanto, è la pantomima tragica dell’emancipazione. Dice a tutti che non è già dal confronto che nasce qualcosa, bensì dallo scontro. Non parlando di avversari e, men che meno, di interlocutori, ma ragionando esclusivamente in senso di “nemici” e di “amici”. I nemici occulti; gli amici dichiarati, esplicitatisi come solerti parti di una comunità che, avversando il “complotto”, disegna un nuovo cammino, una storia inedita, mondata di tutti gli orrori della corruzione. Poiché il complotto è, per definizione, declino nella corruzione, patologia dell’esistenza, quindi decadenza pura. Già abbiamo avuto modo di citare Georges Bensoussan. Lo facciamo ancora quando, continuando la sua indagine sui «Protocolli dei Savi anziani di Sion», afferma che: «une pensée dèlirante retourne tout critique en bien-fondé de ses assertions. Ainsi, soutenir que les Protocoles sont un faux est un effort vain, tant sa mise à plat et la démonstation parallèle de l’irréalite des «complots» sont transformées en preuves de leur nien-fondé». Il complottismo, nel suo essere estremismo e radicalismo allo stato puro (due termini, quelli precedenti, che abbiamo più incontrato perché diffusi, ossia adatti ad intepretare situazioni diverse ma accomunate da un comune sentire e da atteggiamenti similari), si articola quindi intorno ad alcuni solidi capisaldi. Il primo di essi rimanda al fatto che le credenze del modo di pensare ideologico estremista sono talmente amorfe e ambigue da risultare di estrema difficoltà nella loro confutabilità. Un fatto, questo, che ne alimenta la credibilità agli occhi di coloro che le fanno proprie. Divenendo la prova provata della loro fondatezza. Infatti, si obietta da parte di costoro, che: “non sai controbattere altro che rinviando a ciò che tu consideri come la manifesta infondatezza di ciò che andiamo sostenendo; ma qualsiasi cosa tu dica, e faccia, per noi è corroborante rispetto alla nostra stessa posizione. Se la terrà è piatta, ed invece tu vai affanandoti a dimostrarci che è rotonda, noi diremo che è proprio dietro questa tua affettazione che si nasconde l’inconsistenza del tuo dire e la correttezza del nostro”. Più si argomenta contro il complotto, più si rischia di accreditarlo. Poiché si deve scendere al livello delle argomentazioni che gli appartengono, giocando una partita sulla scorta delle regole che esso detta e non sulla base di una razionalità che è, invece, abrogata, perché sostituita dalla coesione del teorema complottista. Non di meno, ed è un altro passaggio importante in quanto andiamo dicendo, le convinzioni complottiste creano coesione di gruppo, ovvero senso di appartenenza. Esse si rivolgono ad una schiera, ampia o contenuta che sia, di “iniziati”. I quali si ritengono tali poiché illuminati dalla “vera conoscenza”, da un sapere tanto potente quanto scandaloso in quanto rivelerebbe apertamente l’altrimenti irrivelabile. Ossia, il riscontro che il mondo è retto per l’appunto da una congiura. La parte restante della popolazione, agli occhi di costoro, è quindi composta da ingenui. Pertanto da individui incapaci di accogliere la “rivelazione” e, in come tali, destinati alla sudditanza. I complottisti, nel denunciare la segretezza dell’altrui cospirazione e la presunta coesione di quanti ne sarebbero parte integrante, spesso ne invidiano le capacità che gli attribuiscono. Il «complotto giudaico», nel dispositivo antisemitico, è tanto più avversato per la potenza, la determinazione, l’attaccamento che coloro che ne costituirebbero i depositari esprimono agli occhi di chi li denuncia come la degenerazione degli ordinamenti umani. È bene non dimenticare che l’invidia, anche in questo caso, è un potente strumento di aggregazione, attivando una sorta di mimetismo imitativo. Qualcosa del tipo: li contestiamo perché in fondo vorremmo essere come loro, carpendone quelle qualità che, invece, indichiamo come disvalori. L’invidia è un risentimento potentissimo. Tanto più quando si basa sulle fantasie con le quali vengono letti i comportamenti altrui, non richiedendo, alcuni riscontro di merito. Non di meno, ed è questo un ulteriore elemento da considerare, le teorie del complotto ingenerano nei seguaci e nei sostenitori entusiasmo e condivisione, oltreché un attaccamento appassionato e quasi ossessivo a pochi ma cristallini motivi di fondo. Da ciò deriva una reiterazione maniacale dei loro temi, secondo un cliché per cui più una cosa è ripetuta maggiore è il suo fondamento. Ed ancora: in tale modo di pensare il mondo si dà la polarizzazione della sua lettura in categorie non ambigue, ancorché prive di riscontro. Già si diceva della linearità delle teorie complottiste, dove ogni aspetto si interseca agli altri, rendendo intelligibile qualcosa che, altrimenti, rischia di rimanere incomprensibile. Ciò che non può essere colto nella sua complessità crea timore, angoscia, paura. Il complotto dà invece un nome, un volto, una prevedibilità a ciò che si presenta come incostante, imprevedibile, soprattutto “imprendibile”. Anche da ciò deriva, nella lingua dei sostenitori di tali formulazioni, l’adozione di un modo di argomentare retorico e semantico prevenuto, basato – ancora una volta – su pochi capisaldi, su un linguaggio semplice, deprivato delle numerose sfumature di significato che la lingua in sé altrimenti offre. Si prediligono quindi sistemi di lettura della realtà onnicomprensivi, ideologici che offrono una chiave di accesso immediato alla “saggezza” e alla “verità” (per meglio intendersi, a ciò che è presentato come tale), mentre si fa ricorso in maniera dogmatica (dando corpo ad una lettura neutralizzante, che livella qualsiasi pluralismo ad essi intrinseco) ai testi di riferimento. Più in generale, si nega l’esistenza di informazioni contraddittorie o comunque alternative tra di loro e si procede ad una selezione sistematica delle notizie, escludendo ciò che potrebbe perturbare o mettere in discussione le proprie convinzioni. Si vive quindi la realtà come dicotomica e quindi polarizzata: c’è la necessità di avere un nemico purchessia, poiché la sua esistenza crea un terreno valoriale comune di condivisione, che rinsalda perennemente i legami, secondo il principio per cui un nemico esterno spazza via il contrasto interno. Chiudiamo queste riflessioni con le parole di un altro autore, Dieter Groh, che abbiamo già avuto modo di richiamare ma che merita di essere ricordato, quando afferma che: «Sono gli uomini stessi a fare la storia, ma quel che consegue dal loro fare non è la loro storia, nel senso dell’intenzionalità delle azioni. In altri termini: soggetto di riferimento e soggetto di azione non coincidono. Se ciò è vero, allora gli uomini possono appropriarsi della “loro” storia solo mediante “atti di auto-investitura retorica”, vale a dire usurpandola. Le storie sono processi che non si piegano alla ragione intenzionale degli attori; sono processi senza soggetto d’azione, il che significa che noi non siamo i soggetti d’azione di quanto ci accade; perché il processo storico produce sistemi complessi, i quali, per definizione, non sono a disposizione del soggetto agente. Per una ragione strutturale, pertanto, la storia non contempla alcun soggetto d’azione ma solo un oggetto di riferimento». Che cosa ciò implichi, avremo ancora modo di discuterne in questa sede nei tempi a venire.
Claudio Vercelli
(30 aprile 2017)