Moked 5777 – Sibony, l’intervista
“Sul Corano facciamo chiarezza”
Le ferite del Mediterraneo restano aperte, ma soprattutto, mentre aumenta la distanza storica dai grandi esodi che hanno sconvolto la regione, ancora sconosciute, incomprese. Psicanalista, storico, sociologo, Daniel Sibony si prepara a intervenire al Moked, la grande convention degli ebrei italiani quest’anno dedicata agli esodi mediterranei. Non è un caso se da pochi giorni, in una Francia che soffre del clima sociale arroventato e delle tensioni di uno storico capovolgimento della vecchia politica, sono in libreria due suoi libri paralleli che già dalle prime parole sembrano scritti apposta per disturbare, per suscitare forti reazioni.
Il tema è l’Islam. La speranza di convivere, la possibilità di comprendere. Ma entrambi i libri, “Un certain vivre ensemble” (Una specie di coesistenza) e “Coran et Bible, en questions et réponses” (Corano e Bibbia, domande e risposte) fanno male, non lasciano spazio alla speranza. Perché tanta severità, e perché due libri diversi per dire la stessa cosa?
Ho voluto articolare il discorso su piani diversi e cercare allo stesso tempo di rispondere a molti interrogativi che si pone la gente nell’Europa di oggi. Da un lato il Corano. Che cos’è questo testo veramente? Un testo sacro che può essere equiparato ad altri testi sacri e per questo motivo studiato, rispettato? Un’opera letteraria? Un proclama ideologico? Solo una conoscenza approfondita del Corano e una reale comprensione del suo messaggio, un messaggio fondamentale per vastissime popolazioni, può consentirci di comprendere effettivamente i problemi che ci troviamo di fronte. D’altro canto ho voluto raccontare i motivi e i meccanismi che hanno consentito per lunghi tratti della storia una coesistenza più o meno pacifica degli ebrei in terra di Islam. Quali sono i meccanismi e le fondamenta della coesistenza?
Oggi si fa un gran parlare di Corano e fioriscono in ogni angolo lezioni e corsi improvvisati per aiutarci a capire questo testo capitale. Eppure, nonostante la sua grande conoscenza della lingua e della cultura, nonostante la sua lunga frequentazione dei testi sacri islamici, la sua lettura dall’interno che pochi altri possono vantare, il suo libro in forma di domande e risposte chiare, talvolta impietose, sulla realtà del Corano è stato accolto con qualche imbarazzo e con molti silenzi.
Parlare di Corano sul serio non è una passeggiata. È un testo che si pone nei confronti della diversità cultura e della diversità religiosa in una maniera molto particolare e per certi aspetti paradossale. Molti spiriti belli corrono il rischio di rimanere delusi, di scottarsi le dita. E tutti corriamo il rischio di fronte a questa realtà di arrenderci, di piombare nel pessimismo più cupo.
Perché?
Il progetto del Cristianesimo è stato quello di innovare la Tradizione ebraica. Il Corano, per contro, non ha niente di nuovo da affermare sotto questo profilo. La sua alterità non consiste in un contenuto diverso, i suoi enunciati non pongono problemi. La sua forza consiste nel proporsi come l’autentica versione dello stesso messaggio e questa verità consiste nella radicale aggressività di imporre tale messaggio. Un’anima rigida, inflessibile, mai aperta al sincero dialogo, che costituisce l’animo dell’identità islamica contemporanea. Questo è il motivo per cui il mondo arabo non ha potuto prendere parte al movimento creativo e culturale contemporaneo. Si tratta di una considerazione storica, ma credo che ogni riflessione seria dovrebbe partire da questa constatazione.
E in Europa questo non avviene?
Non è facile per un europeo accettare la realtà di un testo che propugna la violenza verso tutto ciò che è diverso da sé. Così si finisce per negare, per nascondersi la realtà. Ad attribuire alle circostanze temporanee quella che invece è evidentemente un’anima irriducibile ed eterna.
Si tratta quindi di un testo da rigettare, privo di fascino, senza cultura?
Al contrario. Il Corano è un tesoro di poesia, un testo inebriante e dall’altissimo valore letterario. Si capisce molto bene come sia facile lasciarsi trascinare dall’ideologia dall’affermazione di sé e dalla negazione radicale, violenta di ogni altra cosa, quando se ne conoscono realmente le pagine. Si può cantare i suoi versi e ubriacarsi della sua bellezza. Si possono scrivere e si sono scritti, innumerevoli studi e commenti su questo capolavoro. Si può godere di quel senso di pienezza totale che evacua tutto ciò che è diverso. Ma è anche, e proprio per le stesse ragioni, un appello incessante alla guerra, alla contrapposizione.
Come si fa a parlare di dialogo partendo da queste considerazioni?
Per parlare di confronto e di convivenza in questa situazione abbiamo davanti un’unica strada: la fermezza e il costante rigoroso appello alla legge dello Stato. La missione della legge, la sua dimensione simbolica è quella di proteggere le libertà. Per il resto non bisogna farsi troppe illusioni. Il messaggio del Corano è molto forte e fa presa su vasti strati della popolazione giovanile alla disperata ricerca di una soluzione identitaria che nessun altro ha saputo offrire. Uscirne non sarà facile. Ma qualcosa si può cominciare a fare. Noi ebrei siamo abituati a pregare le il bene dello Stato in cui abitiamo e della collettività dei cittadini. Possiamo proporre che anche gli altri cominciano a fare altrettanto.
Veniamo per un momento all’altro libro, a quella certa convivenza che pure per gli ebrei in terra di Islam è stata a lungo una realtà.
Ho cercato di capire e di spiegare come e a quali condizioni tutto ciò abbia potuto avvenire. Anche in questo caso è necessario tenersi alla larga dalle spiegazioni semplicistiche e consolatorie. Gli ebrei e i musulmani hanno a lungo convissuto, ma la condizione di tale convivenza, quando fu convivenza, non persecuzione violenta, non massacro, è stata immancabilmente l’imposizione di uno stato di sottomissione sociale e politica. La necessità di mantenere l’ordine pubblico o di far funzionare l’economia hanno poi aiutato a godere di lunghi sprazzi di pace e di convivenza, ma c’è stato un prezzo da pagare molto pesante, il prezzo dell’esclusione, dell’emarginazione, della sottomissione, che non possiamo dimenticare.
Una ipocrita convivenza, allora?
Il mio lavoro è di fare lo psicanalista. Non mi interessano solo i fatti, ma anche le intenzioni, quello che si muove a livello incosciente. Quando una degnissima persona usa serenamente la parola “ebreo” come fosse un insulto o una terribile volgarità, allora ci troviamo di fronte a un problema. Il concetto di “minoranza protetta” (“dhimmi”) deve essere spiegato chiaramente. Questa protezione non ha mai significato un’accettazione o una valorizzazione, ma solo una schermatura di una componente sociale dall’odio distruttivo della folla. Una misura di ordine pubblico.
Il Corano esprime una religione della violenza?
Non è esatto. Non c’è gusto per la violenza, nell’Islam, ma solo l’accettazione di ogni mezzo, anche della violenza, per vincere. C’è un desiderio di vincere, di sovrastare ad ogni costo.
Un testo sacro può essere riscritto?
Sarebbe un grande errore concepire il Corano nella stessa dimensione di un testo sacro ebraico che viene continuamente riscritto dall’interpretazione. Il Corano è un testo vivo, ma esprime una identità invariabile e insensibile al lavoro del commentatore, in perpetua armonia con l’impronta originaria.
Come si concluderà questo eterno confronto?
La situazione non è facile, ma dobbiamo lasciare spazio alla speranza. I popoli aspirano alla libertà, hanno bisogno di respirare. E presto o tardi devono prendere in mano il loro destino.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche maggio 2017
(30 aprile 2017)