Gramsci e la questione ebraica
È il 1931 quando nelle sale italiane esce Due mondi, film del regista Ewald André Dupont (nell’immagine). Un film che racconta di un amore impossibile tra un tenente austriaco e una ragazza polacca. Come racconta sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche attualmente in distribuzione (Maggio 2017) lo storico Alberto Cavaglion, nel vedere la pellicola, Tania Schucht, cognata di Antonio Gramsci, resta sconvolta e ne parla, per via epistolare, proprio con Gramsci, detenuto in carcere, e con Piero Sraffa, emigrato a Londra. Uno scambio di lettere che Cavaglion definisce come uno “dei dialoghi più emozionanti della cultura italiana del Novecento” e su cui lo storico, assieme a Luca Borzani, Ermanno Taviani e Flavio Tuliozi, discuterà oggi a Genova a Palazzo Ducale (Sala del Munizioniere, ore 17.30) in occasione dell’incontro “I due mondi – Gramsci, il cinema e la questione ebraica”. Per l’occasione sarà proiettato anche il film di Dupont, di cui Tuliozi – che ha avuto il merito di recuperare la pellicola – racconta la storia e le vicende sul giornale dell’ebraismo italiano, e di cui riproponiamo qui il testo, assieme a quello di Cavaglion.
Gramsci, il film ritrovato
Sulla piazza Carlina, da pochi giorni restituita al suo antico splendore, si affacciava la casa abitata da Gramsci a Torino al suo arrivo dalla Sardegna. Non lontano di lì c’era l’abbaino di Angelo Brofferio, altro testimone oculare della vita quotidiana nel ghetto di Torino nell’età dell’emancipazione.
Parlare di qualche cosa che si conosce da vicino è sempre importante. Questo forse spiega perché nei “Quaderni dal carcere” le poche pagine dedicate da Gramsci alla questione ebraica siano tutte originali e mai scontate: la discussione con Arnaldo Momigliano su Risorgimento e “nazionalizzazione parallela” è la più celebre. Meno conosciuta la cronaca sul presunto “pogrom” di Acqui nella ricostruzione fatta da Raffaele Ottolenghi, discussa da Gramsci con fulminee, geniali annotazioni.
Del tutto sconosciuta è la terza discussione. Si tratta non di una riflessione in prima persona, ma di una discussione epistolare a tre: Gramsci-Tania Schucht-Piero Sraffa. Tutto – qui sta la novità – a partire da un film che Tania sola ha visto. Ambientato durante il primo conflitto mondiale, racconta l’amore impossibile fra un tenente austriaco e una ragazza ebrea polacca, figlia di un orologiaio, che gli ha salvato la vita. “Due mondi” senza speranza di dialogo, una unione proibita. Tania Schucht vede il film e si riconosce nella protagonista femminile, uscendone sconvolta. Riferisce le sue emozioni a Antonio Gramsci, detenuto in carcere e a Piero Sraffa, emigrato a Londra. Pur non avendo visto l’opera di Dupont, Gramsci reagisce con durezza, affermando la necessità del dialogo fra “i due mondi” e nel frattempo si apre ai ricordi del suo soggiorno di studio nella Vienna d’inizio Novecento. Sraffa coglie la tragedia in cui gli ebrei si stanno avviando nel momento in cui massimo è il consenso al regime. Ne scaturisce – per via epistolare – uno dei dialoghi più emozionanti della cultura italiana del Novecento, che adesso, con la riscoperta del film, ci apparirà sotto una luce più nitida.
Mi ero imbattuto in questo dialogo anni fa, studiando la
controversa legge del 1931 sui culti ammessi e la reazione lungimirante del “modernizzante” Sraffa. Mi aveva stupito leggere contributi anche acuti e intelligenti sull’epistolario di Gramsci, che però si erano astenuti dal fare ricerca su una copia del film, introvabile nelle principali cineteche europee. E non solo. Tutti citavano (e citano) I due mondi senza averlo visto.
La bravura e la tenacia dell’amico Flavio Tuliozi hanno reso possibile il ritrovamento, come è documentato dall’articolo qui sotto. Pure il fatto che Giacomo Debenedetti abbia lavorato alla versione italiana del film, nei
mesi immediatamente successivi alla stesura del suo saggio su Svevo, ebraicamente il più controverso che abbia scritto il futuro autore di 16 ottobre 1943, è una seconda piccola grande scoperta di Tuliozi, cui va la nostra gratitudine. Il tardivo ritrovamento (si spera) potrà aiutare a far rileggere i Quaderni. Soprattutto potrà contribuire a sconfiggere la ritrosia (un eufemismo!) che gli storici del fascismo dell’ultima generazione hanno nei confronti di Gramsci, le cui idee sull’antisemitismo in Italia, per quanto mi concerne, reputo siano state archiviate troppo in fretta.
Alberto Cavaglion
Dupont: due mondi, tre vite, un solo schermo
Il 20 maggio 1931, il quotidiano fiorentino «La Nazione» pubblicò la cronaca di una visita agli studi cinematografici, allora all’avanguardia, della British International Pictures a Elstree, nello Hertfordshire, non lontano da Londra. L’articolo sulla «fabbrica dei miraggi» era firmato da Monty Banck, l’italiano Mario Bianchi, attore e regista oggi del tutto dimenticato che rimase molto colpito dalle vestigia di un set abbandonato: «un intero villaggio polacco con le scritte dei negozi in carattere ebraico, coi portici pittoreschi e le viuzze strette e mal selciate». Curiosamente proprio qualche giorno prima sulla «Stampa», Mario Gromo aveva recensito Due Mondi, un film girato appunto a Elstree in quello stesso «villaggio polacco» così ben ricostruito, e ne aveva lodato le
«sobrie scenografie».
L’autore della pellicola, l’ebreo tedesco Ewald André Dupont, oggi sconosciuto quanto Monty Black, negli anni Venti era nondimeno un regista famoso. Nel 1926 fu tra i primi emigranti di lusso sulla rotta Berlino-Hollywood, ma in California Dupont si fermò solo per pochi mesi, giusto il tempo per capire che da lui ci si aspettavano soltanto nostalgici melodrammi viennesi. Tuttavia si adattò e firmò un unico lungometraggio: un fiasco clamoroso. Fu così che ritornò in l’Europa e approdò in Inghilterra. Aveva 35 anni, 32 sceneggiature e 25 film alle spalle, tra cui molti successi e almeno una riuscita trionfale: Varieté (1925), cupo dramma sentimentale con trapezisti, passioni sconvolgenti, gelosie e delitto finale. Un film congegnato con un tale ritmo e un tale virtuosismo visivo da lasciare stupefatti pubblico e critici. Tuttavia la parabola di Dupont è cruda: nel 1927 un sondaggio del Film Daily di Los Angeles collocava Dupont tra i migliori dieci registi di tutti i tempi, ma nel 1956 in quella stessa città sarebbe morto, povero e alcolizzato. Ebbe una sepoltura decente solo grazie a William Dieterle, un altro cineasta tedesco emigrato, che s’incaricò insieme a pochi amici di saldare anche i suoi debiti. Dupont era nato nel 1891 a Zeitz, cittaduzza prussiana, figlio di due giornalisti, Hermann e Hedwig Friedländer, ebrea. Nel 1893 la famiglia si trasferì a Berlino dove si compirà l’educazione e la vocazione di Ewald André, critico cinematografico, poi sceneggiatore e infine regista. Debuttò dietro la macchina da presa nel 1918 per qualche episodio di una celebre serie gialla creata da Joe May. Dupont era abile, versatile e aveva le idee
chiare sul cinema: s’impegnò in una precoce difesa del film come mezzo espressivo autonomo, fondato su regole e strumenti linguistici propri. Scrisse un manuale di sceneggiatura dove raccomandava di raccontare ‘visivamente’ le proprie storie. Da subito strutturò un proprio pantheon di «motivi» che comprendeva il varietà, i triangoli amorosi che sfociano in tragedie, spesso con protagoniste esotiche, le differenze di classe, d’ambiente, e la riflessione sulla propria identità culturale, divisa tra cosmopolitismo della scena e appartenenza all’ebraismo.
Nel 1923 girò Das alte Gesetz (L’antica legge): ambientato in uno shtetl galiziano intorno al 1860, racconta il conflitto che contrappone tradizione, ortodossia religiosa e processi di assimilazione. Ci sono un rabbino e il figlio del rabbino che aspira a diventare un grande attore del Burgteather, tempio dell’accademia, della rispettabilità borghese e della distinzione sociale. Favorita dall’amore di una duchessa l’impresa gli riuscirà nonostante l’opposizione del padre. Il lieto fine celebra insieme il successo artistico e il ritorno alle radici, attraverso il matrimonio con il primo amore dello shtetl e la riconquistata benedizione paterna. Secondo lo storico del cinema Siegbert Prawer, Dupont era «perennemente interessato alle interazioni tra differenti mondi che obbediscono rigidamente a ruoli da principio incompatibili».
In questo senso Due Mondi, realizzato nel 1930, è una specie di precoce e amaro testamento spirituale, disincantata constatazione del fallimento di un possibile armonico incontro tra mondo ebraico e mondo cristiano, almeno ove si tratti di mescolare nell’amore culture, tradizioni, affetti. Il film fu girato in tre versioni: inglese, tedesca e francese. Dupont scrisse insieme a Thekla von Bodo la versione tedesca, quella da cui fu tratta l’edizione distribuita in Italia nel 1931 e di cui Tania Schucht scriveva a Gramsci. Il «Corriere della Sera» del 14 maggio 1931 riassumeva: «Due Mondi, cioè il cristiano e l’ebraico, e il loro cozzo, su quei fluttuanti confini dell’Est, dove le lingue, le religioni, le razze si mescolano in una convivenza perpetuamente repugnante, perpetuamente indissolubile. Questa volta fluttuante più del solito ché siamo durante la guerra, nella Galizia, e gli eserciti nemici passano e ripassano, secondo la fortuna delle battaglie, alterno e mutevole come quello delle maree». Descrizione un po’ dannunziana ma non imprecisa, salvo quell’aggettivo “repugnante” che sembra già uno squillo di propaganda. Tra i “flutti” nasce la passione tra Stanislao, ufficiale austriaco e aristocratico, e Esther la figlia di Simone, orologiaio ebreo. L’amore sarebbe più forte di ogni pregiudizio se il padre di lui, comandante della piazza, e il padre di lei non fossero disposti alla delazione e al ricatto pur di separarli. Concludeva il recensore: «Così Stani rinuncia a Ester, con gran dispiacere del pubblico, per il quale la soluzione ideale sarebbe stata – si capisce – di veder fucilati immediatamente i due papà, e i due ragazzi a nozze, ed essere felici». A cadere senza vita per il dolore è invece la povera Esther.
La versione italiana del film fu adattata da Giacomo Debenedetti che lavorava alla Cines, con sacrificio di pellicola (manca ad esempio la finale riconciliazione tra Stani e il padre) e di qualche idea di Dupont. Lo stesso Debenedetti però ne scrisse poi con acuta ammirazione.
A un anno e mezzo dalla morte del regista fu ancora William Dieterle a disporre che le ceneri del perplesso ebreo di Zeitz fossero collocate in un’urna nel Mausoleo della Resurrezione del Valhalla Memorial Park Cemetery, inscenando il paradosso di un’ironica ultima conciliazione di due mondi così lontani.
Flavio Tuliozi
(4 maggio 2017)