Se non soffri non sei un profugo

Anna SegreNel dibattito politico in Italia capita spesso che a furia di sentir ripetere argomentazioni illogiche la gente si abitui e le consideri sensate. Già sembra essere comunemente accettata l’idea che di fronte all’alternativa tra salvare una persona che sta annegando o lasciarla annegare possa esistere una terza via (anche se finora non ho trovato nessuno che mi abbia saputo spiegare quale sia). Nelle ultime settimane mi è capitato più volte di leggere e sentire il tormentone su immigrati e profughi che nei centri di accoglienza giocano a calcio. Come se questo bastasse di per sé a dimostrare che non provengono da situazioni di pericolo; come se chi ha visto e subito qualcosa di orribile perdesse di colpo la capacità di praticare qualunque sport. Per dimostrare che le cose non stanno così basterebbe ricordare l’esilarante partita di calcio che Primo Levi descrive nella Tregua.
O forse si vuole insinuare che i profughi non dovrebbero passare il tempo a giocare a calcio ma essere impiegati a forza in lavori socialmente utili? Poi qualcuno sarebbe subito pronto a lamentarsi perché rubano il lavoro agli italiani. Oppure (e credo che sia questa la spiegazione più probabile) il gioco del calcio è visto come il sintomo di un benessere eccessivo. Come se ci fosse una sorta di proporzionalità tra la gravità dei pericoli da cui una persona fugge e le condizioni che trova nel luogo di accoglienza. Sei trattato troppo bene? Ti hanno alloggiato in un edificio non abbastanza fatiscente? Dunque potresti essere venuto in Italia solo perché ti fa comodo. Se non vivi in condizioni sufficientemente miserabili non hai modo di dimostrare che davvero per te arrivare in Europa era una questione di vita o di morte. E, dato che non puoi dimostrarlo, se ne deduce che non è vero. In conclusione, se giochi a calcio vuol dire che certamente nel luogo da cui provieni non rischiavi la vita.
Chi meglio di noi ebrei sa quanto sia falsa e pericolosa questa logica?

Anna Segre

(5 maggio 2017)