Verso Lag BaOmer – Trentatré giorni per ritrovare la Luce
Il trentatreesimo giorno dell’Omer commemora l’ascesa al cielo di Rabbi Shimon Bar Yohai (l’autore del più importante testo di Kabalah, il Libro dello Splendore) e la fine della piaga che aveva decimato il popolo ebraico.
A Lag baOmer la luce nascosta della Torah, secondo la Kabalah, viene rivelata in tutto il suo Splendore. Non a caso Lag (che equivale a 33) è la radice della parola Legalot, rivelare. E non caso Hod, lo Spendore, è la sefirah che viene doppiamente contata a Lag baOmer (Hod she be Hod).
Dedicherò qualche riga cercando di presentare alcuni aspetti di Hod, sperando che possano ispirare la meditazione del trentatreesimo giorno del Conto dell’Omer. Inizierò ricordando che come ognuna delle sette emozioni del cuore, Hod è legata a uno dei ‘pastori’ di Israele, Aronne. Il capostipite della casta dei Cohanim (i sacerdoti) Aronne, fratello di Mosè, impregna con la sua personalità l’intera settimana dedicata alla riflessione sull’attributo spirituale di Hod: gratitudine, capacità di autocoscienza e autocritica, capacita di accettare il karma (anche più negativo), mantenendo in questo modo lo splendore della propria anima.
Aronne, spiega la tradizione orale, è il ‘guaritore’ della dor ha midbar (la generazione che rimase 40 anni nel deserto dopo la fuga dall’Egitto): mentre Mosè si dedicava a insegnare la Legge, Aronne curava la lebbra e le altre malattie che manifestano il disagio dell’anima. Ovviamente non lo faceva solo con le erbe ma soprattutto con l’elevazione della consapevolezza del malato. Quando si presentavano casi di lebbra, Aronne guardava la piaga e se ne individuava l’origine psico-somatica (o psico-spirituale), come terapia, inviava il malato a spostarsi fuori dall’accampamento, a riflettere in solitudine, per alcune settimane. Era questo periodo di autocoscienza che porta alla guarigione, come espresso nel versetto della Bibbia che descrive il ruolo della conversione del cuore che precede la guarigione: “Ulevavo iavin vashav, ve rafa lo”: e il suo cuore comprenderà e farà teshuvà e sarà curato.
Riprendendo il discorso della guarigione apportate dalla ‘ricostruzione di un cuore puro che sostituisce il cuore di pietra’, il trentatreesimo giorno della Sefirah è particolarmente importante perché segue il trentaduesimo giorno dell’Omer. Infatti 32 in ghematria è Lev (cuore); 32 sono anche i Sentieri della Saggezza (stiamo già parlando dell’Emotional Intelligence!). Per la Kabalah, solo dopo la riscoperta dei 32 sentieri del Cuore, ci si avvicina veramente alla meta promessa da Dio di rimuovere da noi il cuore di pietra e di rinnovarci col Suo spirito.
Per comprendere un poco più a fondo la Sefirah di Hod dobbiamo studiare il suo ‘pastore’, Aronne. Del primo dei Cohanim apprendiamo che, di fronte alla morte (per mano di Dio) dei suoi due figli, egli seppe restare in uno stato di serena accettazione dell’operato divino. “Ve idom Aron” ci dice il testo: e Aronne rimase in silenzio di fronte alla morte dei due giovani sacerdoti che furono fulminati da Dio per aver officiato le preghiere nel momento non adeguato e in stato di leggera ebbrezza. Il silenzio di Aronne di fronte al dramma della perdita dei figli è supportato dal ‘potere dell’anima’ di Hod, l’emanazione divina che ha dato al popolo ebraico la capacità di superare olocausti e disgrazie senza perdere la fede.
Anche il libro di Giobbe è stato per gli ebrei un manuale di accettazione della durezza del karma. La lettura che ne fa Jung nel testo “Una riposta a Giobbe” mi ha aiutata a capire (più che qualsiasi altro commentario della tradizione ebraica) il dramma che vive l’uomo di fede nei confronti della “selvatichezza [di] un Dio smodato nelle sue emozioni” -che per Jung appare più simile a Zeus e ai capricciosi dei dell’Olimpo, che non al Giusto e compassionevole Dio del monoteismo. L’unico modo per riuscire a comprendere la ‘perversità divina’ (che ad ogni passo del libro Una riposta a Giobbe pare descrivere esattamente la sorte degli ebrei nello Shoah) secondo Jung è pensare alla possibilità che Dio (nel rivelarsi nella sua meschinità invece che nella sua misericordiosa grandezza) stia dando all’essere umano la possibilità di superarLo, di essere più maturo e più grande di Lui, nel rinunciare a lamentarsi per la durezza del proprio destino! Cosi fa Giobbe che si inchina a Dio, invece di seguire il consiglio di Satana e della moglie che vorrebbero vederlo lamentarsi e accusare Dio. E alla fine inaspettata la ricompensa arriva: quando Giobbe in uno stato di totale Hod (come Aronne di fronte ai figli fulminati da Dio) rinuncia a lamentarsi e si prostra a Dio, il destino gli ridà tutto ciò che aveva perduto.
A volte però la ricompensa arriva (se arriva…) solo nel Mondo a Venire, come anche ci insegnano i saggi. Questa triste constatazione porta Jung ad abbracciare l’idea di una divisione all’interno della divinità (cosa impensabile all’interno del cristianesimo, che fece condannare pesantemente Jung dalla Chiesa per la sua eresia). Tale idea era invece presente in alcuni testi, molto discussi, della Cabalà, come il Sefer Habahir. Non è tuttavia questa la sede per discutere gli aspetti contraddittori della Divinità, discorso che riprendere in un altro momento.
Piuttosto desidero parlare della sefirah Hod she be Hod, il dono divino, il potere dell’anima che assiste il fedele affinché resti nella Luce, anche quando sta attraversando la Valle della Morte.
Nelle varie interviste fatte in questi anni a medici, a sopravvissuti alle malattie terminali, a psicologi e healer di ogni genere, la capacità di non giudicare Dio (di essere capaci come Giobbe di prostrarsi di fronte a una Volontà incomprensibile ma purtroppo invincibile) è di per se stessa ”terapeutica”.
La sofferenza quando è accolta senza essere combattuta è vista dalla medicina e dalla psicologia come un importante gradino nel processo di guarigione e di maturazione. Questa verità la possiamo sperimentare anche dal dentista, o quando ci facciamo veramente male: più ci irrigidiamo, più sentiamo il male. Quando riusciamo a cedere al dolore, senza combatterlo, allora inizia il processo di guarigione. Non a caso la parola Refuah-Guarigione si scrive con le stesse consonanti della parola Arpaiah, rilassamento!
Accettare la nostra piccolezza, debolezza, insignificanza, a volte è una meta difficile da raggiungere. È anche una meta a volte pericolosa: per questo prima di ‘contare’ la sefirah Hod, per una settimana ci misuriamo e riflettiamo sulla nostra Netzah (Vittoria-Perseveranza). Netzah è infatti l’antidoto di Hod, della sottomissione e passività; è la capacità di sapere di poter essere vittoriosi, la capacità di non abbandonare la lotta, di non arrenderci. Ovviamente, esaltata eccessivamente, Netzah crea patologie come quella del Faraone o dei leader sociopatici che guidano oggi il mondo. Per questo Netzah va temperato da Hod, cosi come Mosè (il ‘pastore’ associato a Netzah) aveva sempre bisogno del fratello Aronne accanto a sé per poter mediare con il popolo e con il Faraone, ed anche con Dio…
Un altro aspetto della Sefirah Hod she be Hod è quello del saper ammettere i propri torti (lehodot). Questa è una cosa difficilissima per la maggior parte di noi, che agiamo guidati più dal nostro ego che dal nostro Sé superiore. Aronne, esperto nella psiche umana, per mantenere l’armonia nell’accampamento usava un trucchetto. Poiché la volontà di pace è incoraggiata fortemente dal sentirsi capiti e riconosciuti, Aronne di fronte a un conflitto, parlava separatamente ai due che litigavano. Ad ambedue diceva quanto l’altro era desideroso di essere perdonato. Questo, immancabilmente, rilassava l’antagonista che abbandonava la modalità energetica da ariete in lotta per la supremazia.
Un ultimo volto che voglio descrivere, di Hod, è la Gratitudine. La capacità di vedere la tazza ‘mezza piena’. La capacità di vivere nel presente, consapevoli di ogni momento di amore e bellezza che esiste nella nostra vita. Purtroppo la psiche umana, come ha scoperto la ricerca sul funzionamento del cervello, tende a ricordare molto di più ciò che è negativo che non ciò che di buono è accaduto nella nostra vita. Quindi la maggior parte di noi fatichiamo a restare nella luce gratitudine, nella consapevolezza grata per ogni momento di amore con cui la Shehinah si è rivelata nella nostra vita.
Mi auguro che la meditazione, la preghiera e il conto dell’Omer di “Hod she be Hod” possa aiutare noi tutti a vedere e sperimentare, sempre di più, nella nostra vita lo Splendore emanato dalla Sefirah Hod.
Daniela Abravanel