Macron e la sua Francia

torino vercelliLa Francia ha adesso il suo nuovo presidente. Senza maggioranza parlamentare, in quella che è una Repubblica semipresidenziale, dove l’inquilino dell’Eliseo ha prerogative non solo notarili. In poche parole: bisognerà vedere quanta tela dimostrerà di avere a sua disposizione per tessere una ramificazione sufficientemente robusta di rapporti capaci di incidere nelle scelte di un paese strategico rispetto agli equilibri continentali. Al ballottaggio Emmanuel Macron è stato votato dal 66,06% degli elettori, in sostanza oltre 20 milioni di persone. L’avversaria, Marine Le Pen, ha raccolto in tutto il 33,94% cioè 10 milioni e 600 mila francesi, che corrispondono comunque al doppio di quanto era riuscito a realizzare suo padre Jean-Marie, quando nel 2002 si era confrontato con Jacques Chirac. Per intenderci, quindici anni fa il vecchio Jean-Marie aveva totalizzato al primo turno il 16,86% (4.804.713 voti) mentre al ballottaggio non era andato oltre al 17,79% (corrispondente a 5.525.032 voti, di contro agli oltre 25 milioni del vincitore). Allora, l’appello alla diga contro il “fascismo che ritorna” era stato corale mentre in quest’ultima tornata il richiamo c’è stato, ha pesato molto ma non ha raccolta la medesima eco dei tempi trascorsi. Marine Le Pen, evidentemente, non è concepita alla stregua di suo padre. Continua tuttavia a manifestarsi il riflesso condizionato per il quale quando un candidato del Front National concorre contro un altro esponente politico per un qualche seggio, non importa quale, il suo avversario ha buon gioco nell’evocare immediatamente la pregiudiziale antifascista. Finché questa dovesse durare (ed in Francia richiama una lunga sequela storica, più che bicentenaria, dalle manovre controrivoluzionarie del post-1789 ad Ordre Nouveau, passando per la Vandea, la repressione della Comune del 1871, l’affaire Dreyfus, Drumont e la sua schiatta, il collaborazionismo di Vichy, l’Oas e «l’Algérie est française et le restera» insieme ad altro ancora) il neolepenismo è condannato anzitempo. In altre parole, la complessa e al medesimo tempo spregiudicata azione di Marine Le Pen per disancorare il Front National da quel suo passato “che non passa” (la cosiddetta «dediabolizzazione», in corso da almeno una decina d’anni e che è andata proseguendo con il concorso del più stretto collaboratore della leader, Florian Philippot, visto dai quadri dirigenti maggiormente conservatori come fumo e sabbia negli occhi), trasformandolo quindi in un partito capace di raccogliere tutta l’area di protesta dei francesi, continua ad essere filtrato dalle maglie delle appartenenze di destra e di sinistra. L’interclassismo del malumore e del risentimento non supera questo bipolarismo che, nell’esercizio del voto, continua ad essere un fattore di forte identificazione e, quindi, di scelta in un senso piuttosto che in un altro. Peraltro, in queste presidenziali l’astensione al ballottaggio è stata del 25,38%, pari a circa 12 milioni di francesi; i voti bianchi o nulli sono stati più di 4 milioni. Inutile baloccarsi sulle cifre, ozioso esercizio in cui ancora qualcuno indulge. La vittoria di Macron è stata comunque netta e indiscutibile. Che fosse un candidato “forte”, ossia in grado di contrastare e di sconfiggere la sua avversaria, è stato evidente fin da quel primo momento in cui, quindici giorni fa, è emerso come colui che sarebbe andato al confronto finale per le presidenziali. La sua forza, peraltro, non gli deriva da un programma politico chiaro e, ancor meno, da militanze di lungo corso. Da questo punto di vista è, semmai, una figura per più aspetti inedita. Un ibrido tra grand commis de l’Etat, ovvero un “servitore” di rango superiore della pubblica amministrazione, in funzione apicale, e un decisore politico a sé stante. Culturalmente e ideologicamente molti lo collocano, e probabilmente non a torto, nel campo neoliberale e liberista. Neoliberalismo e liberismo non sono la medesima cosa: il primo indica un insieme di pensieri che identificano l’individuo come matrice della società, all’interno di un sistema di relazioni tuttavia globalizzato; il secondo, perlopiù valorizza la centralità dell’agire razionale che deriverebbe dagli scambi economici di libero mercato. Rimane il fatto che la sua cultura di riferimento, la visione del mondo, le relazioni professionale che intrattiene – in una parola (quella “magica”) il suo curriculum -, rimandano tutte a questo campo. Macron emerge dalla crisi dei due maggiori partiti francesi, quello gollista e il socialista. Anche per questo rimane, al di là del posizionamento di principio, un’incognita. Arriva da un governo socialista, avendone fatto parte, ma se ne è allontanato anzitempo, presagendo il declino della formazione politica che lo aveva connotato. In un anno ha costruito la sua candidatura, giocata, come sempre più spesso avviene un po’ ovunque, e quindi non solo in Francia, su un accentuato personalismo: il candidato non chiede ai suoi potenziali sostenitori di votare un “programma politico” ma, piuttosto, alcune intenzioni che si abbinano alla sua figura medesima. È questa una delle declinazioni possibili del nuovo “centrismo”: votate ciò che io dico di rappresentare, una posizione mediana e “riformista”. Ha vinto anche per questo, ossia contrastando il sovranismo e l’identitarismo di cui Marine Le Pen e il neolepenismo sono invece espressione. Lo ha fatto con una clamorosa accelerazione di tonalità, forzando volutamente il confronto con i suoi antagonisti sul piano del ribaltamento delle loro stesse affermazioni. In altre parole, non ha detto di non essere ciò che gli avversari gli imputavano; ha semmai affermato che quanto per gli altri poteva essere il segno della sua inaccettabilità era invece da leggersi come il suo elemento di forza. “Non votatemi malgrado ciò che si dica io sia, votatemi per ciò che io dico di essere (e che gli altri mi contestano)”. Le accuse, ripetute in prossimità del ballottaggio, di costituire un pupazzo in mano alla «finanza internazionale», se non è certo che gli abbiano integralmente giovato di certo non gli hanno di certo nociuto. Poiché hanno rafforzato, in quella parte dell’elettorato che avrebbe potuto votarlo ma che era ancora indecisa al riguardo, la netta impressione che il Front National giocasse le vecchie carte, a partire dall’accusa di complottismo e di dipendenza dai «poteri forti», recuperando l’armamentario tipico di una destra reazionaria che demonizza da sempre gli avversari. Una destra che continua a fare paura proprio per questo. Quindi, Macron ha detto sì all’Europa, sì alla globalizzazione, sì ad un ampio (e al momento ancora molto generico) rimando ad un programma di «riforme». Ad una prima fotografia della composizione del voto, si rileva immediatamente come abbiano dato l’assenso per Macron i grandi centri urbani mentre per Le Pen perlopiù hanno contato le campagne e le periferie cittadine. In tutta plausibilità il gioco politico – invero assai abile – di Macron è stato quello di rompere con il residuo bipolarismo che ha attraversato la storia francese di questi ultimi quarant’anni, presentandosi come un uomo di centro poiché figura al medesimo tempo di mediazione e di impronta europeista. Ha fatto forza sul timore, molto diffuso in una parte dell’elettorato, che i radicalismi avessero altrimenti il sopravvento, offrendo quindi l’immagine di una Presidenza della Repubblica che mantenga il perno di equilibrio, e non sia fattore di sbaricentramento, nelle relazioni interne al Paese come anche, se non soprattutto, con l’Europa. Gli ha fatto da sponda, del tutto involontariamente, la grigia gestione presidenziale di Hollande che ha aperto le porte alla sua candidatura fuori dai ranghi, portando i socialisti, passo dopo passo, al tracollo, ma preservando il rigore istituzionale della funzione presidenziale, che è anche il collante del rapporto privilegiato con la Germania di Angela Merkel. La mancanza di un candidato forte nel campo gollista ha fatto quindi il resto. Le rilevazioni Ipsos Steria indicano che rispetto al primo turno, quello del 23 aprile scorso, gli elettori che avevano optato per un altro candidato si sono così divisi dinanzi al duello Macron-Le Pen: quelli che avevano scelto Fillon (centrodestra) al 48% si sono poi rivolti a Macron, al 20% alla Le Pen e per il restante 32% si sono astenuti; gli elettori di Hamon (socialista) si sono invece divisi con il 71% per Macron, nel 2% per Le Pen mentre per il 27% non hanno votato; infine, i sostenitori di Mélenchon (sinistra radicale), più tiepidamente si sono rivolti a Macron, con il 52%, mentre per il 41% (ben 3 milioni) si sono rifugiati nel non voto e per il 7% nel consenso alla candidata del Front National. Nelle motivazioni di voto le ragioni prevalenti, nei confronti della scelta per la candidatura di Macron, si sono così articolate: per il 43% si è trattato di un assenso “reattivo”, ossia di opposizione alla Le Pen (9 milioni di elettori); per il 33%, invece, la questione fondamentale ruota intorno alla sua capacità di essere un rinnovatore della politica; per il 16% (una misura esigua, ad onore del vero) è il suo programma politico ad avere ottenuto credibilità; per la restante parte, l’8%, infine, è la sua «personalità» ad avere convinto. Si tratta di cifre grezze su temi generici, destinati ad ibridarsi e a riversarsi gli uni negli altri. Tuttavia, indicano i trend di fondo di queste elezioni. Sul piano della composizione sociale le fenditure sono tanto articolate quanto nette. Si calcola che le famiglie con un reddito mensile pari o superiore ai 3mila euro hanno votato, per circa tre quarti, a favore di Macron; nelle famiglie con redditi pari o inferiori alla soglia dei 1.250 euro, grosso modo i candidati si sono divisi i consensi in misura più ponderata e similare. In poche parole, maggiore è la capacità reddituale, maggiori gli assensi al candidato «mondialista». A ricalco, quindi, la ripartizione delle preferenze in base all’estrazione professionale: i dirigenti pubblici e privati hanno votato compatti per Macron (88 su 100); i quadri intermedi per il 67%, gli impiegati al 54%; gli operai al 44%; i pensionati, infine, al 74%. L’elettorato giovanile (18-24 anni) preferisce abbondantemente Macron (66% di contro al 34% per Le Pen). A fronte di ciò, rimane un’altra connotazione del voto, ossia la robusta astensione che lo ha accompagnato, di norma mai raggiunta in un’elezione presidenziale (salvo quando sono stati in lizza due candidati repubblicani); lo stesso può dirsi dei voti bianchi e nulli. Fin qui il fotofinish della tornata presidenziale. C’è poi tutto il resto. Parlare di una Francia spaccata è un esercizio retorico e gratuito. Retorico poiché ricalca una modalità di pseudo-interpretazione basata sulla ripetizione di un cliché, quello per cui da ogni elezione verrebbero fuori due “popoli” diversi, corrispondenti alla dicotomia elettorale; gratuito in quanto la realtà è molto più fluida di quanto non sembri e, pertanto, destinata a conoscere ulteriori mutamenti. Nell’Esagono come in buona parte dell’Europa. Alcune tendenze di fondo tuttavia emergono e possono essere riassunte, ancorché sommariamente. La prima di esse è che nell’Europa atlantica le spinte “populiste” faticano a tradursi in organica forza di governo. Se si eccettua la pur significativa manifestazione di volontà sulla Brexit – peraltro un referendum, non un’elezione – che comunque faceva seguito a già precedenti pronunciamenti continentali avversi all’Unione europea, sul piano politico le forze che a vario titolo si richiamano alla reazione sovranista non sfondano. Semmai riescono a garantirsi un buon drappello di eletti nelle assemblee rappresentative (qualora non vigano leggi elettorali con sbarramenti draconiani), forse in attesa di “tempi migliori”. La seconda tendenza rimanda al persistere, sia pure in forme mutevoli, di una sorta di sbarramento “antifascista”. Così detto, può significare tutto e nulla. La nozione stessa di antifascismo, di per sé generica e insufficiente, non rende della varietà di meccanismi di reazione alla presenza di candidature che si connotano sul piano del radicalismo di destra. Non è un caso, al riguardo, che invece in una parte dei paesi dell’Est le reazioni siano ben diverse. Per capire come gli elettori si muovono occorre quindi continuare a guardare alle rispettive storia nazionali. Il terzo aspetto che va rilevato è che comunque una quota consistente di elettorato si sente non rappresentato dai vincitori. Laddove però questa difetto di rappresentanza è molto più ampio del voto dato ai partiti e ai movimenti populisti, sovranisti e identitari. Senza esercitarsi in indebite sommatorie, se si riflette sul fatto che da lidi opposti Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon hanno giocato le loro carte sulla contrapposizione ad un globalizzazione «senza volto né pietà», allora si avrà un’idea un po’ meno sommaria della forbice tra gli “integrati” (ovvero quanti, a diverso titolo, ritengono comunque che un futuro gli sia garantito dall’evoluzione dell’attuale sistema sociale ed economico) e gli “apocalittici” (per i quali, invece, la caduta di reddito e di status si traduce in una serie di aspettative rivolte tutte in negativo, identificando nell’Unione europea e nelle élite traditrici le due matrici dei loro affanni). Anche la dicotomia tra periferia e centro, tra élite e subalterni, tra ceti in contrapposizione, tra classi, appartenenze e cos’altro dovrà confrontarsi con questo mutamento del tessuto sociale europeo di cui il voto è solo uno dei possibili indicatori. Alternative non ne esistono, a meno di non inventarsi un mondo immaginario, che se è in un primo momento sogno rischia di rivelarsi, al brusco risveglio, un incubo assai concreto.

Claudio Vercelli

(14 maggio 2017)