Il quadro mediorientale
Le vicende che stanno coinvolgendo da tempo il Medio Oriente e l’Africa mediterranea e subsahariana, pur nella loro varietà di casi (come tali da considerare sempre nella loro specificità), vanno comunque intese anche come tasselli di un mosaico relativamente unitario. Scarsa, ad esempio, è l’attenzione collettiva che è stata dedicata alla frantumazione, consumatasi già alcuni anni fa, di ciò che restava della Libia dopo la scomparsa di Gheddafi. Laddove è invece elevato il rischio che si ripercorrano le tappe che in un passato ancora recente hanno fatto sì che nel Corno d’Africa la Somalia divenisse una sorta di «terra di nessuno», matrice delle tribalizzazioni di ritorno. Ossia, per meglio intenderci, luogo di rifeudalizzazione della terra e di chi ci abita, nel nome dello strapotere dei cosiddetti «signori della guerra» che dallo sfascio dello Stato nazionale da sempre hanno solo da ricavarci benefici a non finire. Recentemente ha notato Maurizio Molinari, tra le altre cose, che: «II dibattito sul ritorno delle tribù tiene banco in Occidente e in Oriente evidenziando una generale tendenza alla disgregazione che porta all’indebolimento degli Stati nazionali e dei rispettivi establishment.[…] Da un lato ci sono Medio Oriente e Nord Africa, dove la decomposizione degli Stati arabo-musulmani creati nell’ultimo secolo porta a un dilagare di rivolte che fanno riemergere con forza i clan tribali come fonte di aggregazione sociale, economica e militare con i jihadisti che ne esprimono la dimensione più sanguinaria e rivoluzionaria». E ancora: «a Oriente – come in Siria, Iraq, Libia e Yemen – è il crollo violento di regimi dispotici a innescare la disintegrazione di Stati privi di legittimità popolare, spingendo individui e famiglie a riaggregarsi attorno alle identità pre-esistenti alla formazione delle nazioni ovvero tribù, clan e moschee». Per poi aggiungere: «Ad accomunare le tribù d’Oriente e d’Occidente è invece l’avversario contro cui si battono: lo Stato nazionale, le sue istituzioni, l’establishment sono considerati un ostacolo da affrontare, contestare e, nei casi più estremi, rovesciare. Il ritorno delle tribù è dunque la cartina al tornasole dell’indebolimento degli Stati nazionali, che sono chiamati ad affrontare tali sfide da cui possono uscire rafforzati o dilaniati». La questione, in realtà, è nel caso del Vicino e Medio Oriente di lunga durata, attraversando, nei suoi prodromi, buona parte dello stesso Novecento. Su questa newsletter già si è avuto modo di evidenziare la concomitanza, non di certo casuale, tra il tramonto del “grande Medio Oriente”, così come era stato disegnato durante e dopo la Prima guerra mondiale, e la decadenza medesima degli Stati nazionali indipendenti, nati su quelle stesse terre durante la decolonizzazione, a partire soprattutto dal secondo dopoguerra. In altre parole, i secondi non si sono sostituiti al primo, malgrado le ripetute promesse. Venendo meno l’uno si sono consumati anche gli altri, benché apparissero soggetti storici diversi per epoche distinte. Nel primo caso, storicamente, la suddivisione voluta dal condominio franco-britannico, dal 1916, non aveva dato vita ad un articolato sistema di amministrazioni che non fossero semplici depositarie degli interessi delle potenze europee. Volutamente indifferenti, quindi, agli interessi delle comunità locali, ai gruppi autoctoni, se non ad essi a volte addirittura ostili, quanto meno nella misura in cui ciò poteva invece servire a tutelare le proprie prerogative e i privilegi di circostanza. Il subentrare ad esse di Stati indipendenti non ha quindi sedato, né tanto meno risolto, i conflitti preesistenti. Di fatto questi ultimi hanno invece ereditato le contraddizioni che già si erano manifestate a suo tempo con il disfacimento dell’Impero ottomano, a partire dalla permanenza, sia pure sotto altre forme e con nomi differenti, dell’organizzazione in comunità confessionali (il «millet»), dove ogni gruppo gestiva per conto suo aspetti significativi dell’esistenza dei suoi membri, a partire dagli affari di diritto civile, godendo poi di quote di rappresentanza proporzionali nelle istituzioni collettive, quelle politiche, a discapito dei moderni processi di costruzione della cittadinanza in un ambito interculturale. Lo stesso panarabismo, quando si affermò negli anni Cinquanta e Sessanta, nel più generale processo di consolidamento del terzomondismo, di contro alle influenze e agli egemonismi di tagli imperiale degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, finì con il minare la già scarsa legittimità degli Stati nazionali arabi, nel nome di un’ideologia transnazionale, espressione nei fatti di un ceto politico sì modernizzante ma che guardava con diffidenza al concreto consolidamento di questi ultimi. Fatto che accentuò i tratti autoritari delle élite politiche; mise spesso la museruola a qualsiasi discussione pubblica; alimentò speranze per poi tradirle; impedì, o ritardò, la trasformazione socioculturale come soprattutto i processi di mobilità sociale interni alle società locali. In Iraq, in Siria, in Egitto e, più in generale, in buona parte della regione, la debolezza delle classi medie urbane, ossia la loro sottorappresentanza politica è poi un fattore che storicamente non ha permesso la creazione di uno spazio politico autonomo, capace di dare effettiva sostanza ai processi di democratizzazione. I quali non erano e non sono mai il prodotto della mera volontà individuale, o di astratti valori di principio, ma il risultato di interessi specifici ancorché diffusi, che devono ancorarsi a gruppi sociali capaci di promuoverli, affinché nella loro affermazione questi riscontrino un’utilità propria. Piaccia o meno, tutto ciò è quanto la storia a noi più prossima ci consegna in termini di razionalità e buon senso. A surrogare la mancanza di un’ossatura sociale nel medesimo tempo articolata e duttile è stata quindi la presenza, spesso ipertrofica, elefantiaca, di quella parte della pubblica amministrazione che è l’esercito. La vicenda egiziana è emblematica, a tale riguardo. Anche da ciò è derivato una sorta di potere dinastico repubblicano che, sul piano concreto, rende oggi assai fittizia in Medio Oriente la divisione tra repubbliche (Siria, Egitto, Libia, Iraq) e monarchie (Marocco, gli Stati del Golfo, la Giordania). Di fatto, nell’uno come nell’altro caso, la trasmissione del comando avviene con modalità non troppo dissimili, pur nel rispetto formalistico della forma istituzionale. E se nei decenni trascorsi la linea preordinata di successione doveva comunque confrontarsi con il problema del carisma personale (un fenomeno, quest’ultimo, che la questione palestinese aveva alimentato in tutta la regione, incentivando la ricerca di leadership che avessero un forte appeal politico nonché una capacità di costruire consenso diffuso intorno a sé), oggi la soluzione, non negoziata, alle tensioni generate dall’onda lunga delle «primavere arabe», ha riconsegnato in tutto e per tutto ai detentori di fatto della forza un ruolo preminente. Che ancora una volta, ricorrendo all’arsenale dell’auto-legittimazione attraverso la retorica demagogica degli slogan (unità ideologica, religiosità politica, una qualche idea di giustizia sociale e il rimando al conflitto israelo-palestinese), gestiscono per gradi i processi di sfarinamento delle comunità politiche nazionali. Laddove questo non è invece possibile, come nei casi della Libia e dell’Iraq, allora il passaggio è stato segnato repentinamente dal ricorso alla guerra civile, ossia alla fazionalizzazione e alla lotta contro la presenza delle comunità civili appartenenti ai gruppi ritenuti “nemici”. Questo quadro generale, con il quale ci confrontiamo da un po’ di tempo a questa parte, tuttavia non nasce in questi ultimi anni, avendo avuto avvio semmai circa quattro decenni fa. Il primo segnale fu la guerra civile libanese, iniziatasi tra il 1975 e il 1976. Da quel momento, sia pure con vicende alterne, un trend è andato affermandosi, fino a sfociare nelle vicende dei giorni nostri, alle quali stiamo da molto assistendo. Ai fattori di criticità preesistenti, ossia le ingerenze esterne, la marginalità delle economie locali nei mercati internazionali e la forte confessionalizzazione delle comunità, si sono sommati, portando ad una miscela esplosiva, i drammi interni ai singoli Stati. In particolare, l’incontrollata crescita demografica, la forte polarizzazione sociale tra poche élite benestanti e la maggioranza della popolazione, spesso in condizioni prossime alla miseria, l’eclatante (e non gestita) disoccupazione giovanile, l’incremento del tasso di scolarizzazione (laddove si è quasi sempre tradotto in un volano di aspettative non corrisposte), la corruzione e il clientelismo dilaganti, la mancanza di un sistema evolutivo e integrativo di Welfare State, l’assenza di partiti politici laici e, più in generale, di un sistema politico pluralista. Questi ed altri fattori si sono tra di loro integrati ed hanno interagito, rafforzandosi vicendevolmente. La pressione popolare di questi ultimi anni, che ha trovato nel Mediterraneo meridionale il suo epicentro, ha fatto saltare questo precario sistema come se fosse stato il tappo della bottiglia. Senza però che ad esso se ne sia sostituito un altro. Semmai i vecchi metodi ne sono addirittura usciti rafforzati, con un surplus di autoritarismo e di concentrazione in poche mani dei processi decisionali. I colpi di stato (e di mano) succedutisi velocemente ne sono il riscontro. Parlare di «consolidamento del processo democratico», come ancora fingono di potere fare certuni, è semplicemente una foglia di fico, usata perlopiù per coprire l’inettitudine delle organizzazioni internazionali, soprattutto dinanzi all’ombra minacciosa di un terzetto di nazioni, la Russia, la Turchia e l’Iran, che anche se da posizioni non necessariamente concordanti, vogliono giocare di qui in avanti un ruolo strategico nella gestione delle risorse petrolifere e di gas naturale della regione. Quello che in questi mesi abbiamo pertanto registrato, rubricandolo sotto la locuzione «emergenza umanitaria», è quindi la fuga voluta e cercata delle popolazioni, ovvero il loro spostamento coatto che non solo segna l’infelice destino dei rifugiati (almeno due milioni tra gli iracheni, tre milioni tra i siriani i quali vantano anche il poco invidiabile primato di fare parte di un Paese dove il 40% degli abitanti è fuggito dal luogo di origine e residenza), ma anche la progressiva dissoluzione delle frontiere, soprattutto tra Iraq, Siria, Libano e Turchia (ma anche nello Yemen e, sia pure in maniera meno eclatante, tra Pakistan ed Afghanistan). La linea confinaria tra il primo e il secondo Stato, ad esempio, di fatto ha cessato di esistere già nel 2012, laddove l’Isis sul versante iracheno controlla ancora alcune province di un qualche rilievo mentre su quello siriano ha in mano un ampio territorio, ancorché discontinuo. Il Libano, a sua volta, serve come base logistica ai ribelli, contrastati dalle milizie di Hezbollah. Significativo, in questo quadro ancora in movimento, il fatto che l’islamismo politico, al quali tutti gli attori politici in campo dichiarano di rifarsi, si presenti più che mai come un fattore di divisione, essendo rappresentato sia dalle petrolmonarchie consevatrici del Golfo sia dal jihadismo reazionario e fascistoide, quest’ultimo indistintamente di osservanza sunnita come sciita. La politica, in diversi paesi arabi e musulmani, si è ridotta a violenza interconfessionale, mirando inesorabilmente a colpire, per ragioni simboliche, oltre che per calcoli strategici, le minoranze più fragili. Le fazioni che si scontrano in campo aperto, pur invocando ossessivamente il monopolio di un’ortodossia politico-religiosa, di cui si presentano come gli unici, autentici rappresentanti, non hanno alcun progetto politico alternativo agli equilibri che stanno contribuendo a scardinare. Nel rimandare ad un universalismo di facciata, quello dell’Umma, la comunità dei credenti, nei fatti concreti rivelano d’essere l’espressione di interessi di gruppi circoscritti, che ambiscono semmai a mettere mano al controllo dello sfruttamento delle risorse naturali, per evidente calcolo di vantaggio. Ma oltre a questo, non c’è dimensione di prospettiva, confidando semmai sul fatto che il caos e il disordine siano il vero orizzonte politico permanente, nel quale vedere maturare finalmente il proprio tornaconto. La disintegrazione irachena è la cartina di tornasole di questo declivio collettivo. Ma lo è anche la sostanziale marginalità che il conflitto israelo-palestinese va sempre di più rivestendo, passo dopo passo, in tale scenario. Evocato, richiamato ma anche esorcizzato, ridotto frequentemente a un evento mediatico (integralmente coperto dai mass-media occidentali, quando invece ciò che succede in altre aree della regione è risaputo solo a distanza di tempo dai fatti, attraverso i passaparola così come per il tramite delle opposte propagande), è anch’esso foglia di fico di processi ben più ampi, che prefigurano, nel loro violento ripetersi, qualcosa a venire la cui fisionomia non c’è ancora per nulla chiara. Un po’ come la riproduzione, però a potenza ennesima e ben più devastante, di certi scenari di controllo camorristico del territorio, quanto meno per come una certa letteratura ci ha abituati a pensare alcuni luoghi, che non possono dirsi perduti alla democrazia e alla giustizia poiché dell’una e dell’altra non hanno mai fatto alcuna esperienza.
Claudio Vercelli
(21 maggio 2017)