Il kirpan a casa nostra
Ha avuto una grande eco la recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha condannato un indiano di etnia Sikh a pagare una multa di duemila euro per aver girato con il “kirpan”, coltello tradizionale di questo popolo. Si tratta di una lunga lama affilata, simbolo di una stirpe di guerrieri schierati a protezione dei più deboli. Pare infatti che lo strumento non vada adoperato per ragioni offensive, ma solo per tutelare l’incolumità di chi è in pericolo.
In Italia il dibattito, anche in sede giuridica, è aperto da alcuni anni, almeno fin da quando la comunità sikh, proveniente dal Punjab, si è stabilita in zone del paese come le province di Cremona, Mantova, Reggio Emilia, Modena e Latina, dedicandosi soprattutto al settore zootecnico e alla mungitura delle vacche. Vari episodi hanno affollato procure e testate locali, finendo per interessare anche il Museo per le armi bianche e le pergamene di Bergamo (ebbene sì, esiste!), chiamato in passato a misurare l’inoffensività di un surrogato del kirpan, un pugnale più corto e dalla punta stondata che era stato proposto come mediazione.
“Non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”, si legge nella sentenza della settimana scorsa. E il senso di questa risoluzione è ovviamente del tutto ragionevole: l’integrazione non deve significare una rinuncia alle proprie regole né ai propri costumi, pur nella comprensione di quelli altrui e nello sforzo per accoglierli.
Dunque no alla poligamia, no alle mutilazioni genitali femminili, no al divieto di istruzione per le ragazze, perché tutto ciò è esplicitamente vietato dai principi stessi della nostra Costituzione, anche prima di qualunque altra legge. Ma c’è un problema, una parola che stona. Che c’entrano i “valori” con questo ragionamento? Non si può girare con un pugnale o con un’altra arma bianca perché la legge lo vieta, e tanto basta. Non è un nostro valore, è una legge. La sensazione è invece che l’abuso di questa parola sia spesso sintomo della nostra incapacità a definirli con chiarezza, i nostri valori.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas Twitter @tobiazevi
(23 maggio 2017)