Non di solo kirpan
Un indiano, nel 2013, trovato a Goito dalla polizia in possesso di un lungo coltello (il pugnale sacro detto Kirpan) , rifiutò di consegnarlo, adducendone la conformità alla sua fede Sikh. Nel 2015, il tribunale di Mantova, che non ritenne che le ragioni religiose fossero una valida giustificazione, lo condannò ad un’ammenda di duemila euro. Sentenza poi confermata in sede di legittimità (Cass. Sez. I Penale 15 maggio 2017, n. 24084).
La questione più interessante non concerne la dialettica fra norme di pubblica sicurezza e libertà religiosa, la quale questione è stata affrontata anche nelle giurisdizioni sovranazionali soprattutto nei riguardi del velo islamico, bensì negli obiter dicta e finanche in talune considerazioni palesemente metagiuridiche.
Poiché non è la prima volta che il mondo della cultura incrocia quello del diritto (vedi Cassazione sez. V penale – sentenza 10 novembre 2016, n.47506, sul sionismo), sarebbe opportuno soffermarsi sul punto, soprattutto ora, alla luce dello scontro delle civiltà, come ebbe a definirlo Samuel Huntington, in contrapposizione con le tesi (assai ingenue) di Francis Fukuyama.
Accade che nel corpus delle sentenze vi siano, oltre al puro diritto, i dati esterni all’ordinamento, che talvolta ne fanno da presupposto e talaltra ne costituiscono un orpello, rendendoli non molto diversi dagli obiter dicta.
Nel nostro caso, la Cassazione semina il sentiero di ragionamenti che non sono passati inosservati:
1) “la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante;
2) È quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina;
3) La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere”.
Nell’ordine: 1) il riferimento ad un nucleo comune di valori condivisi è alla base, per esempio, dell’ordine pubblico internazionale, e in quanto tale sembrerebbe condivisibile; 2) l’obbligo di conformarsi al mondo occidentale porterebbe ad escludere l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam; 3) gli arcipelaghi culturali confliggenti sono, anch’essi, un male per la civile convivenza, e qui fa bene la Cassazione ad augurarsi un tessuto sociale che non porti più ad una continua ancorché silenziosa guerra civile.
Ne consegue che questa sentenza, anche laddove è poco condivisibile, è stata oggetto di una lettura immeritatamente riduttiva: non sono temi da liquidare con facili battute. Rimuovere i fatti può far molto comodo, ma i problemi non si risolvono rinviandoli alle future generazioni.
Emanuele Calò, giurista
(23 maggio 2017)