Periscopio – Domande attuali
Mi trovo quasi sempre pressoché totalmente d’accordo con le analisi delle vicende mediorientali fornite da Sergio Della Pergola (tanto da poterle condividere, se così si può dire, ancor prima di leggerle): un commentatore che unisce il rigore dello scienziato alla forza narrativa di un grande scrittore, e, soprattutto, riesce sempre a coniugare le valutazioni politiche ed economiche con quelle morali (che siamo così abituati, invece, a vedere costantemente ignorate, o trascurate). E, le rare volte in cui mi capita di dissentire un po’ da lui, dipende quasi sempre da una differenza di fondo tra noi due, che costituisce, anch’essa, un mio ulteriore motivo di ammirazione per lui: il grande demografo, infatti, pur abituato, da sempre, a commentare notizie sconfortanti, rimane, nel fondo, un inguaribile ottimista (come, se mi si permette il paragone profano, il mio eroe a fumetti preferito, il grande Tex Willer), mentre io mi sento invece più vicino al suo “pard”, il brontolone Kit Carson, che la vede sempre brutta. Alla fine, com’è noto, ha sempre ragione Tex, e speriamo che sia così anche per noi.
Fuor di scherzo, c’è una domanda molto importante che Della Pergola pone, nel mensile cartaceo di maggio di Pagine Ebraiche, a cui si deve una risposta. La domanda, in realtà, non appare tanto nuova, e la risposta dovrebbe apparire scontata. Eppure, se si avverte l’esigenza di riproporre l’interrogativo, un motivo, evidentemente, c’è, e allora c’è anche ragione di ribadire, e meglio precisare, la risposta. Perché, se le domande e le risposte appaiono simili, i contesti storici in cui vengono formulate cambiano continuamente nel tempo, così da dare ad esse significati anche molto diversi.
Della Pergola richiama “il dilemma e la sofferenza di chi è abituato per educazione e per scelta a militare per e con Israele, senza peraltro mai rinunciare a una presentazione dei fatti e delle opinioni che sia allo stesso tempo obiettiva e sostenuta da fonti concrete. Il dilemma dunque è tra denunciare ciò che nel discorso pubblico israeliano appare a molti come una grande involuzione, col rischio di essere fraintesi o strumentalizzati, o al limite – come ci è stato fatto notare – essere citati su siti anti-israeliani di ispirazione iraniana o neonazista. Oppure lasciar perdere, non intervenire, non reagire, non parlare di politica, occuparsi di questioni più frivole come magari la nascita di un piccolo rinoceronte al safari di Tel Aviv, o più costruttive, come l’ultima scoperta contro il cancro da parte di una scienziata israeliana”.
L’antica domanda, sempre attuale, è quindi: fino a che punto un amico di Israele può o deve esercitare il proprio diritto di critica, senza che le sue parole vengano strumentalizzate e deformate in senso rozzamente anti-israeliano dai soliti, numerosi e agguerriti, nemici? E senza che ciò venga interpretato, in buona o cattiva fede, come una forma di “intelligenza col nemico”, o, addirittura, di “tradimento”?
La domanda, ripeto, non è certo nuova, ma, purtroppo, è sempre attuale. Quanto alla risposta, come ho anche detto, dovrebbe essere scontata. Ho scritto, nel mio intervento dello scorso 5 aprile, a proposito di papa Francesco, che le sue schiere di entusiasti e incrollabili “plauditores” non gli fanno, in realtà, un favore, in quanto un amico ha bisogno anche, o soprattutto, di consigli, critiche, correzioni. Ma per Israele la situazione è molto diversa rispetto al papa, anzi, l’opposto: non troppi amici, ma troppi nemici. Per cui, secondo me, credo che le risposte alla domanda dovrebbero essere due, perché c’è una grande differenza tra una critica a Israele espressa da parte dei suoi cittadini (che condividono le sorti del Paese, che, col loro libero giudizio, contribuiscono a determinare) e ciò che viene detto invece nel resto del mondo, da persone che magari amano profondamente Israele, ma – come me, per esempio – non sono né israeliani né ebrei, e, qualsiasi cosa possa succedere da quelle parti, continuerebbero comunque ad avere un solido tetto sopra le testa. Della Pergola, come ogni cittadino israeliano, “è” Israele, e ha il dovere, oltre che il diritto, di mettere la sua intelligenza al servizio della sua comunità, anche con la critica più severa. E, se qualche sito iraniano o neonazista riprende le sue parole, potrà vedere in ciò l’ennesima conferma del baratro morale che separa la sua idea di informazione dalla loro. Ma gli amici di Israele non israeliani, come me, si trovano in una posizione diversa. Noi non “siamo” Israele, e nostro compito primario non dovrebbe essere quello di criticare, seduti comodamente in poltrona, le scelte del legittimo governo israeliano, indicando quello che dovrebbe fare: ma difendere, sempre e comunque, lo Stato ebraico (non il suo governo) dai suoi nemici. I quali, com’è noto, tra israeliani ‘buoni’ e ‘cattivi’ non fanno la benché minima differenza.
Francesco Lucrezi, storico
(24 maggio 2017)