voyeur…

Eccolo là, acquattato come un gatto selvatico che deve assaltare una donnola, in un balzo appare davanti a noi il voyeur halachico, quello che ha seguito e segue ogni passo della vita dei signori Kushner, Jarod ed Ivanka Yael, ed, in quanto voyeur, è pronto ad analizzare ogni singolo atto del loro essere in base ai dettami deuteronomici, che magari il gatto selvatico per se stesso non applica, ma è pronto ad usarli come griglia per la vita altrui.
Ed allora il nostro gatto selvatico si chiede come abbiano fatto a viaggiare di Shabbat, come hanno fatto a mangiare kasher in Arabia Saudita e poi, nel caso del voyeur de’ noantri, si chiede pure perché i Kushner, arrivati a Roma, non siano andati a mangiare in uno dei buonissimi ristoranti kasher della capitale.
Ed ecco che vengono fuori gli articoli che raccontano di una “dispensa” rabbinica, poi questa viene smentita ma, intanto, il popolo del web si è già sovraeccitato, ha già sovrapostato, si è già scatenato in mille e più like o dislike o quasi quasi like.
Come se al mondo nessuno facesse compromessi con se stesso, come se nessun rabbino al mondo, al di là dei giusti pareri halachici, non si sia mai trovato a dover rispondere a questioni di meta-halachà e di frontiera dell’osservanza. A quale rabbino al mondo non è mai stato chiesto se, accettato il fatto che si trattasse di una situazione di non osservanza, in quale modo sarebbe stato giusto comportarsi anche in un contesto limite? A quale rabbino, per esempio, non è mai stato chiesto se, data la distanza enorme dall’unica sinagoga della città, sarebbe stato meglio non andare al tempio o andarci guidando o con i mezzi pubblici? A quale rabbino non è mai stato chiesto se fosse il caso o meno mangiare a casa di amici o parenti non osservanti e di come fosse più giusto comportarsi e districarsi tra insalate e piatti freddi o caldi? La letteratura rabbinica degli ultimi cento cinquanta anni è piena di domande “al limite”, come quella di Rav Goldsmith a Rav Feinstein z’’l sulla Mosca degli anni del 1990 e la possibilità di viaggiare in treno di Shabbat o durante le feste per andare al Tempio o quella posta al Rav David Hofmann, il Melamed Lehoil, ortodossissimo rabbino berlinese morto nel 1921, che permetteva che gli studenti ebrei andassero alla scuola pubblica di Shabbat, a certe condizioni ed in certi contesti. Insomma il gatto curioso dovrebbe sapere che esiste l’halachà ma esiste anche la riflessione prima e dopo di essa e fermo restando che esistano delle inequivocabili trasgressioni, all’interno delle stesse, esiste un ragionamento per vivere un compromesso, senza essere apostati o non credenti. È il dramma, la ricchezza, il dolore e la forza di questa nostra generazione di blasfemi credenti, di ortodossi epicurei, di donne a capo scoperto dall’ortodossia innegabile e uomini ortodossi dai compromessi discutibili. E che deve fare un rav davanti a tutto questo? Mi aiutano nella risposta gli articoli di rav Eliezer Berkovitz z’’l, rabbino, educatore e teologo di origine rumena, morto negli anni del 1990 pochi anni fa a Yerushalaim. “Un rav che bene si adatti alla guida ed all’autorevolezza nella comunità ebraica dei nostri giorni, deve essere piantato profondamente sia nell’ebraismo storico che nella cultura (europea) moderna. Lui deve essere un sapiente ed anche uno scienziato, un filosofo ed anche uno storico allo stesso tempo. La sua personalità dovrebbe essere un incrocio dove l’Europa ed il Monte Sinai si incontrano. […]Solo per il fatto di essere stato capace di mantenere la sua identità religiosa all’interno delle esperienze conflittuali, potrà essere in grado di istruire la comunità ebraica contemporanea.
Solo una persona con un equilibrio armonico interno raggiunto attraverso la lotta tra idee opposte sarebbe in grado di scoprire il messaggio del giudaismo della generazione attuale, perché solo una tale personalità sarà in grado di portare la tradizione in una traduzione in termini moderni. Un tale risultato richiede conoscenza e carattere: la vera conoscenza del giudaismo insieme ad una comprensione critica sulla struttura della civiltà occidentale e dei meccanismi, e carattere abbastanza forte da resistere alla pressione derivante dal lasciare i molti problemi irrisolti, forte abbastanza da pensare onestamente, eppure in grado di tradurre i pensieri in azione, un carattere cauto, ma audace.”
E c’è davvero poco di audace nel puntare il dito contro gli ebrei celebri che, pur in una forte ortodossia, scelgono i loro compromessi, si consigliano per attuarli, senza che questo sia da considerare una dispensa di cattolica memoria o un lassismo segnato dalla perdita identitaria.

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino

(26 maggio 2017)