Shavuot e il senso della vita ebraica

In febbraio è mancata a New York la nonna di mio genero. Qualche mese prima, per festeggiare il suo centesimo compleanno erano convenute a casa sua decine di discendenti, alcuni dei quali lei forse neppure conosceva. La sua improvvisa scomparsa ha colto di sorpresa i figli che erano giunti in Israele per il matrimonio dell’ennesima pronipote. La defunta era da tempo trisnonna: nonna di numerosi nonni a loro volta. Sia il suo ricordo in benedizione!
È un quadro al quale da tempo non siamo più abituati in Italia. Penso spesso a coloro che vengono chiamati alla lettura del Sefer Torah nei nostri Battè ha-Kenesset. Quando si tratta di commemorare i loro cari scomparsi molti ricordano a memoria intere file di tombe al cimitero, salvo poi rimanere basiti nel momento in cui gli si chiede di benedire i discendenti e i famigliari viventi: semplicemente non hanno più nessuno. Come diceva Rav Kahanemann di Ponovizh, un individuo diviene orfano nel momento in cui non ha più i genitori; una Comunità diviene orfana allorché non ha più figli.
C’è un rimedio a tutto ciò? Certamente. Siamo in prossimità di Shavu’ot, la festa del dono della Torah. Nel capitolo che precede i Dieci Comandamenti H. si rivolge a Moshe in via preliminare: “così dirai alla Casa di Ya’aqov, parlerai ai Figli d’Israel” (Shemot 19,3). Rashì spiega che la Casa di Ya’aqov si riferisce alle donne, mentre i Figli d’Israele sono gli uomini. Ci si domanda ulteriormente: perché chiedere il consenso del “gentil sesso” prima della componente maschile del popolo? La Halakhah afferma che in un qualsiasi transazione occorre avere il pieno consenso di tutte le parti coinvolte. Se da una parte ci sono marito e moglie in società, occorre chiedere prima il consenso della moglie, altrimenti l’affare è annullato (Ghittin 55b). Secondo i criteri dell’epoca il timore è che se si facesse l’inverso e si domandasse prima al marito e poi alla consorte sussisterebbe ancora il dubbio che la moglie possa aver accettato soltanto per compiacere il marito. H. si comporta in conformità: prima di offrire la Torah a Israele chiede anzitutto l’assenso delle donne, o meglio, delle mogli.
La vita ebraica si basa sul matrimonio ebraico. Non si insisterà mai abbastanza sul divieto del matrimonio misto: un’evasione della legge non può essere un investimento per il nostro futuro. Ora mi voglio soffermare su un altro grave pericolo per i destini del nostro popolo, quello costituito da chi sceglie di non sposarsi del tutto. Più esattamente mi rivolgo ai ragazzi e ragazze ebrei che pur frequentandosi optano per ritardare il matrimonio.
I nostri Maestri ci insegnano che la Torah ci è stata donata come una sposa. Accettare la Torah – spiegano i Saggi d’Israele – non presuppone una sua conoscenza totale, così come non è possibile, né si pretende che lo sposo conosca già tutto della sposa il giorno in cui decide di convolare con lei (Rashì a Shemot 31,18). Non si deve cioè attendere troppo, temendo di scoprire in un futuro più o meno lontano qualche lato sgradevole nella o nel partner. L’attrazione reciproca, una buona dose di mutuo rispetto e fiducia, nonché un progetto lungimirante di vita comune dovrebbero essere elementi sufficienti per garantire la stabilità del rapporto. Come è avvenuto per secoli fra il popolo d’Israele e la Torah.
Ma il timore di sbagliare non è l’unico movente della dilazione. Oggi viviamo un’epoca di crisi economica. Particolarmente i giovani faticano a trovare un impiego lavorativo stabile e ciò è spesso invocato come scusa per il rinvio del matrimonio. L’argomento è già affrontato nel Talmud a sua volta. Il versetto “Predisponi fuori il tuo lavoro, approntalo nella campagna e dopo costruirai la tua famiglia” (Mishlè 24,27) è inteso come un invito a sposarsi solo una volta che ci si sia garantiti l’avvenire con i proventi del lavoro (Sotah 44a). Così scrive Maimonide: “Gli uomini sensati cominciano con un lavoro stabile per guadagnarsi da vivere, dopodiché si acquistano una casa e infine prendono moglie… mentre gli stolti cominciano sposandosi, dopodiché se ne hanno la possibilità si acquistano casa e solo successivamente, alla fine dei loro giorni, cercano un lavoro o vivono di tzedaqah” (Hilkhot De’ot 5,11).
Esiste peraltro nel Talmud un insegnamento contrastante. Parlando dei doveri del padre verso il figlio, l’obbligo di aiutarlo a trovar moglie precede quello di insegnargli un mestiere (Qiddushin 29a). In una sua Derashah il Chidà di Livorno (sec. XVIII) scrive a sua volta di non considerare il testo del Maimonide vincolante per il suo tempo, perché il rinvio del matrimonio è causa di trasgressioni (Chadrè Baten, P. Waychì, II, n. 28). Non voglio qui discutere sul piano etico se la liberalizzazione dei costumi nel nostro secolo sia da assumere come un dato di fatto (“così fan tutte”) o come spunto per una maggiore attenzione. Mi limito alle considerazioni economiche da cui sono partito. Siamo certi che non ci troviamo di fronte a una semplice convenzione, o meglio una scusa, per quanto buona? Quante spese del tutto voluttuarie affrontiamo con il denaro dei nostri genitori pur rimanendo single! Mi limito a un esempio. Quanti “fidanzati” che vivono ciascuno per suo conto se fossero sposati condividerebbero la stessa casa e dunque risparmierebbero le spese di un alloggio!

Rav Alberto Moshe Somekh

(30 maggio 2017)