Ebrei dalla Libia, 50 anni dopo l’Ultimo esodo prende la parola
Alla fine della proiezione diverse persone si sono avvicinate a Ruggero Gabbai e David Meghnagi, autori del documentario Libia – L’ultimo esodo, per ringraziarli. Sullo schermo del Cinema Orfeo di Milano avevano rivisto la propria storia personale e famigliare, riportato alla mente i ricordi di genitori e nonni di quel mondo abbandonato mezzo secolo fa, di quella Libia a lungo chiamata casa da migliaia di ebrei poi costretti ad abbandonarla tra pogrom e violenze. “Raccontare è un principio ebraico in cui ho sempre creduto e che applico al mio lavoro”, ha affermato Gabbai, regista del film proiettato ieri in anteprima grazie al sostegno dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane davanti a un pubblico di seicento persone. E la storia poco conosciuta degli ebrei di Libia, del loro rapporto complicato con un Paese che li accolse e tradì ripetutamente, doveva essere raccontato. Così tra le voci dei testimoni dell’epoca e filmati d’archivio, le vicende delle realtà ebraiche di Tripoli e Bengasi hanno ripreso vita: dalla convivenza dei primi del ‘900 fino all’applicazione delle leggi razziste del ’38 durante la dominazione fascista italiana, dalle deportazioni della secondo conflitto mondiale al boom economico del dopoguerra fino al sanguinoso pogrom del 1967. In L’ultimo esodo ci sono i racconti dei profumi e della vita nel rione ebraico, il hara, del rapporto a volte amichevole ma ancor più spesso conflittuale con i vicini musulmani, dell’intreccio tra le diverse minoranze del Paese, e infine della sensazione di libertà provata una volta raggiunta l’Italia o Israele (dove la maggior parte della comunità era emigrata già nel ’48) dopo quell’ultimo episodio di violenza del ’67. “La società araba non fu mai in grado di interrogarsi sul tema dell’emancipazione – ha spiegato alla fine del film Meghnagi, psicanalista e assessore alla Cultura UCEI, durante un momento di riflessione condotto da Fiona Diwan – ma anzi accusò le sue minoranze di volere la libertà. È accaduto con gli ebrei, con gli armeni, accade oggi con le comunità cristiane in Medio Oriente. Il mito della convivenza tra ebrei e mondo musulmano è appunto un mito: gli ebrei erano tollerati finché rimanevano in uno stato di subordinazione. L’emancipazione, la ricerca di libertà era considerata dai dominatori un tradimento”. Un tradimento punito con la violenza, come dimostra il caso libico ma come testimoniano le esperienze di tutti gli ebrei dei Paesi arabi: quasi un milione di persone che circa mezzo secolo fa abbandonarono i propri paesi d’origine in cerca di una vera libertà in Israele, in Europa e in America. Libertà di cui nel film parlano testimoni come Victor Magiar – Consigliere UCEI – o Amos Guetta che, commossi, ripercorrono i momenti della fuga verso l’Italia, di quell’ultimo sguardo gettato sulle coste di Tripoli dall’aereo prima di raggiungere, senza quasi nulla in tasca, una nuova terra e una nuova vita. “Sono storie che parlano di resilienza – ricordava Meghnagi – di una capacità di credere nella vita, di sognare a occhi aperti e ricostruirsi un futuro nonostante un passato fatto di storie spezzate”.
Tra i protagonisti del film anche Anna Maria Cancellieri, già Ministro dell’Interno italiano, che in Libia passo la sua infanzia: “Tripoli – racconta nel film – ci ha insegnato a vivere in una comunità multietnica e multiculturale, ci ha insegnato il senso della vita condivisa e del rispetto per l’altro”. Ma ha anche tradito questo insegnamento cacciando prima la sua minoranza ebraica e poi quella italiana con l’arrivo di Gheddafi. “Mi sono commossa guardando queste testimonianze e mi sono resa conto di quanto noi allora non capimmo la lezione impartita dal destino riservato ai concittadini ebrei”, ha spiegato Giovanna Ortu, Presidente dell’Associazione italiani di Libia. “Noi italiani pensavamo di essere al sicuro e invece a distanza di soli tre anni fummo cacciati. Spesso ci illudiamo perché vogliamo illuderci”.
d.r. @dreichelmoked
(7 giugno 2017)