Gentiloni, la visita in sinagoga
“Ebrei di Libia un esempio”
“C’è una sensibilità alta delle comunità ebraiche sul tema dell’immigrazione, dell’accoglienza, dello sforzo enorme che l’Italia sta compiendo nonostante le difficoltà, le polemiche, i pericoli, per non chiudere le porte a chi scappa dalla guerra e carca asilo. Le comunità lo capiscono perché lo hanno vissuto sulla loro pelle”.
È uno dei messaggi più significativi che il Primo Ministro Paolo Gentiloni ha voluto lasciare in occasione della sua visita al Tempio Maggiore di Roma per i 50 anni dall’arrivo degli ebrei di Libia in Italia. Migrazioni di ieri e di oggi, le nuove sfide e complessità, lo straordinario apporto offerto da questo nucleo non solo alla vita ebraica ma alla società italiana nel suo insieme.
È stata una giornata importante, quella di ieri. Una giornata segnata da molteplici emozioni, apertasi con la proiezione di alcune testimonianze raccolte dal sito Memorie Ebraiche e conclusasi con l’omaggio a due storiche figure di questa realtà: Sion Burbea e Shalom Tesciuba.
Accolto dal rabbino capo Riccardo Di Segni, dalla presidente della Comunità ebraica romana Ruth Dureghello e dalla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, il premier ha varcato l’ingresso della sinagoga con il sorriso sul volto. E nel suo intervento non ha mancato di sottolineare i rapporti amichevoli e profondi con diversi esponenti del mondo ebraico.
Parole di grande ammirazione sono state poi rivolte alla realtà degli ebrei libici, che hanno importato un nuovo modo di vivere portando una “ventata cosmopolita” alla più antica Comunità della Diaspora e sono stati quindi capaci di affermarsi nei diversi mestieri attraverso “cultura e fantasia”. Le loro, ha spiegato Gentiloni, “sono storie drammatiche di un esodo da Tripoli e Bengasi che via via si sono trasformate in positive, di speranza”. A perderci è stata la Libia, accecata dall’odio antiebraico. E il rischio, ha aggiunto il premier, è che non sia finita.
“L’esodo degli ebrei dalla Libia ha impoverito quel Paese – le sue parole – così come oggi, lo dico da cristiano, corriamo il rischio di ulteriore impoverimento per la preoccupazione che c’è in molti Paesi per un’emarginazione o addirittura un allontanamento delle comunità cristiane”. La sfida della stabilizzazione è quindi urgente e vede l’Italia impegnata in prima linea affinché le risorse del paese non vengano sfruttate “in modo osceno”.
“Nel Talmud – la riflessione del rav Di Segni – i Maestri discutevano, in modo come sempre apparentemente paradossale, dei benefici dell’esilio, Sì proprio dei benefici. Qualcuno diceva che l’esilio espia tre colpe. Qualcuno diceva metà delle colpe, citando l’esempio di Caino. Qualcuno si spingeva a dire: tutte le colpe. Come a dire che l’esilio è una tragedia ma è anche una rinascita, è una prova per chi parte, ma anche per chi rimane e per chi assiste all’arrivo. La storia di questa terra ospitale cinquanta anni fa e del miracolo dell’integrazione insegna molto ai nostri giorni”.
“Raccontiamo questa storia – ha affermato Dureghello – perché è parte della storia della Comunità ebraica di Roma e perché è il racconto di un mondo ebraico scomparso: quello degli ebrei del nord Africa che era radicato lì fin dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme. Un mondo scomparso in Libia, ma rinato grazie alla forza di volontà di chi ha perpetuato e trasmesso la propria cultura, la tradizione e i riti, qui a Roma, dove oggi celebriamo la ricorrenza dei cinquant’anni da quell’esodo”.
Ha osservato in un passaggio del suo intervento la Presidente Di Segni: “Lo status di rifugiati loro assegnato sotto l’egida dell’Alto Commissario dell’Onu appena giunti fu presto dimenticato da qualsiasi organizzazione internazionale, dall’UNHCR molto attento alle vicende di altri profughi, di altri popoli. Questa è la storia di centinaia di migliaia di profughi ebrei dai molti Paesi Arabi, mai ascoltata e riconosciuta. Con forza oggi assieme a loro e ai loro avi vorremmo che questo venisse fatto”.
(Foto di Ariel Nacamulli)
(7 giugno 2017)