A cosa serve la cultura
Per preparare questa lezione, racconta Michela Marzano un sabato mezzogiorno nel suo incontro sul tema A cosa serve la cultura oggi? all’interno della manifestazione pistoiese I dialoghi sull’uomo (26-28 maggio 2017), la studiosa ha chiesto prima a suo marito Jacques (per sentirsi rispondere che non serve a nulla), poi a suo padre (serve a quello per cui è sempre servita), e allora ha deciso che avrebbe cercato da sé le risposte.
Questo poteva già essere un avvio di riflessione sulle figure di riferimento maschili, ma non c’è stato tempo di pensarci subito per l’incalzare delle argomentazioni: la cultura serve innanzitutto a ricostruire la spina dorsale logico-argomentativa che permetta di combattere l’irrazionalità complottista del nostro tempo, la quale porta a diffidare di qualsiasi verità in nome della cosiddetta post-verità; irrazionalità la quale a sua volta, secondo Marzano, richiama quanto affermato da Edmund Husserl (già espulso dal mondo accademico a causa delle leggi razziste tedesche) nella conferenza viennese del 1935 su La filosofia nella crisi dell’umanità europea, da cui nacquero poi le conferenze praghesi ed il lavoro incompiuto e postumo Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie: Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie (La Crisi delle Scienze Europee e la Fenomenologia Trascendentale, Il Saggiatore 1965).
In secondo luogo, la cultura serve a combattere quello che Hannah Arendt ha per prima individuato come la capacità umana di commettere il male senza che vi debbano essere, per farlo, particolari condizioni di malvagità, ma semplicemente lasciandosi trasportare dal conformismo, dal pensiero unico, dall’adeguarsi acriticamente ad una legge ingiusta o al sentire comune (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli 1964).
Infine, la cultura serve a dare il giusto nome alle cose, perché usare bene le parole diminuisce, ricorda Marzano parafrasando Albert Camus, il disordine e la sofferenza nel mondo (“La logica della rivolta sta nel voler servire la giustizia per non accrescere l’ingiustizia della condizione, nello sforzarsi al linguaggio chiaro per non infittire la menzogna universale e nel puntare, di fronte al dolore degli uomini, la felicità”, in L’uomo in rivolta, Bompiani 2012, p. 311) – e ciò mi riporta al dono fatto da Kadosh BaruchHu all’uomo a completamento della creazione: “qualunque nome l’uomo avesse dato agli esseri viventi sarebbe stato il loro nome”, Bereshit 2,19, nonché il fatto, come abbiamo appena letto nell’ultima parashat haShavua da cui il quarto libro della Torah prende il nome ovvero BeMidbar erroneamente tradotto con Numeri, di eseguire il censimento non contando direttamente le persone ma chiedendo loro mezzo siclo, secondo quanto comandato in Scemot 30,11; e viceversa la reificazione nazista dell’essere umano attuata anche privando i prigionieri del proprio nome ed assegnando loro un numero.
Ma poi torno a pensare all’esordio dell’incontro: Marzano ha iniziato ricordando di essersi rivolta al marito ed al padre, con cui il confronto forse non è mai cessato pur avendo superato il disequilibrio relazionale cui si riferiva quanto scrisse Volevo essere una farfalla (Mondadori 2011), nel denunciare i disastri prodotti dall’aver cercato a lungo di essere perfetta (“Per anni ho pensato che rinunciare all’ideale, non essere più esattamente come mio padre voleva che fossi, avrebbe significato la fine”, p. 58).
Dietro la fame fisica, c’era la fame di amore, la sensazione di non essere adeguata, di non essere all’altezza, di non superare il giudizio degli altri. Ci ripenso perché, anche se apparentemente non c’entra nulla e Marzano chiude la sua lezione con alcuni passi dal suo ultimo libro, L’amore che mi resta (Einaudi 2017) – questa volta un romanzo sulla possibilità, da lei stessa sfiorata, di poter morire lasciando una madre sola nel tentativo di sopravvivere alla ricerca delle parole giuste per esprimere il dolore e così fronteggiarlo – la sera torna a parlare di amore un uomo che ha davvero perso un figlio, David Grossman.
Intervistato da Paolo Di Paolo su La forza del dialogo in occasione del conferimento del primo Premio internazionale Dialoghi sull’uomo, Grossman ci dice che per cercare di parlare davvero con l’altro è necessario, un po’ come nello scrivere un romanzo, provare a vestire i panni dell’altro. Tentare di immedesimarsi nel suo contesto, nel suo modo di ragionare, nella sua vita. Non per, ricorda a ragione, annullarsi nell’altro ed accettare acriticamente tutto quanto da lui proviene, perché dall’altro si può anche dissentire, ma per farlo bisogna averlo prima ascoltato. Con compassione, aveva detto già Marzano, nel senso etimologico di pazein, sentire.
Ma come ascoltare l’altro, quando hai perso un figlio? Forse, cerco di immaginare, solo partendo dallo stesso dolore, come ha fatto Manuela Dviri incontrando donne palestinesi che avevano vissuto un’esperienza analoga alla sua, ed affrontando la sofferenza con la scrittura, che sia insieme di denuncia e di ricerca di ricostruire il sé infranto per imparare a sopravvivere (La guerra negli occhi: diario da Tel Aviv, Avagliano 2003; Vita nella terra di latte e miele, Ponte alle Grazie 2004).
O provando a vivere la vita dell’altro, come Tamar che per salvare il fratello scomparso con un gruppo di tossicodipendenti scappa di casa, iniziando la vita di strada alla ricerca del ragazzo (David Grossman, Qualcuno con cui correre, Mondadori 2001). Tamar ce la farà, diversamente da Orfeo che per troppo amore si volta a guardare e perde Euridice per sempre.
Perché convivere significa imparare, alla fine, cosa mettere sotto la voce “amore” – quando “amore” sembra apparentemente solo rimandare alla voce “sesso” e viceversa – e soprattutto come riempire la voce “vita, significato della” (David Grossman, Vedi alla voce: amore, Einaudi 1999, pp. 385, 526, 550).
Sara Valentina Di Palma
(8 giugno 2017)