L’intervento del rav Di Segni:
“Il negativo può essere opportunità,
questa è la nostra grande risorsa”

C’è un legame antico tra Roma e Tripoli e tra gli ebrei romani e gli ebrei di Tripoli. Nelle catacombe ebraiche di via Portuense, ora inaccessibili, un’iscrizione tombale cita una sinagoga romana dei Tripoleitòn e un’altra il gerusioarchès Tripolìtes il capo del consiglio degli anziani di Tripoli (e conoscendo i tripolini quello che desta meraviglia è chi fosse solo una sinagoga tripolina e un solo capo degli anziani). Oggi siamo qui per ricordare un evento più recente. Proprio nelle ore in cui con un ribaltamento miracoloso l’esercito israeliano infliggeva al sud un colpo decisivo all’esercito egiziano e a Gerusalemme, in un corpo a corpo sanguinoso, penetrava nella città vecchia, restituendo al popolo ebraico il luogo più sacro delle sue memorie e della sua fede, in quelle ore si svolgeva a Tripoli e altrove in Libia una drammatica caccia all’uomo, la caccia all’ebreo disarmato e vittima designata. Si riproponeva sotto veste di nazionalismo arabo e islamico lo schema feroce e antico del pogrom. E con un folle disegno politico si metteva fine in pochi giorni a una storia di presenza millenaria di una comunità. Quello che non è riuscito alla pazzia del nazifascismo, di liberare i paesi europei dalla presenza ebraica, ha avuto successo nella maggioranza dei paesi arabi. Un bel risveglio nazionale, una bella primavera, come si direbbe oggi.
Pochi giorni dopo gli ebrei libici approdarono in migliaia in Italia, e molti decisero di rimanere qui. Con gli ebrei romani fu uno strano incontro. Perché gli ebrei romani sono gli eredi di un insediamento eccezionale per la sua stabilità, che ha visto di tutto, fino agli orrori nazifascisti, ma è rimasto fermo qui. Anche la Libia era un insediamento di una certa stabilità e anche un polo di attrazione ebraica. Ma improvvisamente la campana del destino ebraico ha suonato anche in quella terra e chi era stabile è diventato un profugo, con una valigia e venti sterline. Golà e galùt sono i termini ebraici che indicano l’esilio, la diaspora e la dispersione. Ci dimentichiamo che l’intera umanità, secondo il racconto della Torà, discende da una coppia di esiliati e profughi, Adamo ed Eva. La storia e la condizione ebraica stanno a ricordarcelo. La radice che indica la golà è la stessa di galgàl, la ruota. La vicenda umana è quella di una ruota che gira in continuazione.
La diversità è ricchezza. Come è stato già detto, questa storia è un modello vivente di integrazione. In questo spostamento epocale sono stati in molti a guadagnarci. Per primi gli ebrei di Libia, che superato lo shock iniziale hanno trovato in questa terra un posto fecondo dove impiegare la loro intelligenza, le loro capacità imprenditoriali e dove prosperare. Ha guadagnato la comunità ebraica di Roma, che ha conosciuto modelli diversi di identità ebraica e che grazie a questo è cresciuta fisicamente e spiritualmente. Ha guadagnato l’Italia per tutto quello che gli ebrei libici sono riusciti a seminare in questo paese. Gli unici che hanno perso, sono coloro che hanno voluto che il loro paese fosse libero da ebrei. Hanno perso e rimangono dei perdenti in auto dissoluzione. In termini sportivi diremmo tre a zero.
Ogni ebreo che si muove si porta appresso memorie angoscianti, ma anche la dolce nostalgia dei luoghi, dei profumi, dei sapori di origine. Qualche volta non ci sarebbe più memoria di luoghi e culture più o meno antiche se non ci fosse un ebreo a ricordarle nel suo modo di parlare, di cucinare, di idealizzare uno scorcio ignoto di paesaggio. Nel disastro attuale della Libia, stranamente chi ne parla con rimpianto sono proprio gli ebrei che ne sono stati cacciati. E con loro, e non dobbiamo dimenticarlo, gli italiani non ebrei che vi si erano insediati e anche loro ne sono stati cacciati.
La nostra grande risorsa è quella di non farsi sconfiggere e di trasformare il negativo in opportunità. Nel Talmud i Maestri discutevano, in modo come sempre apparentemente paradossale, dei benefici dell’esilio, Sì proprio dei benefici. Qualcuno diceva che l’esilio espia tre colpe. Qualcuno diceva metà delle colpe, citando l’esempio di Caino. Qualcuno si spingeva a dire: tutte le colpe. Come a dire che l’esilio è una tragedia ma è anche una rinascita, è una prova per chi parte, ma anche per chi rimane e per chi assiste all’arrivo. La storia di questa terra ospitale cinquanta anni fa e del miracolo dell’integrazione insegna molto ai nostri giorni
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Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

(8 giugno 2017)