Avere voce
Lekhà dodì, vieni, amico. L’inno che accompagna l’arrivo dello Shabbat è sempre il solito, ma sentirlo cantare da una voce femminile lo rende straordinariamente commovente. A maggior ragione ascoltarlo seduta in prima fila, guardando in faccia l’officiante (la bravissima Miriam Camerini) a pochi passi di distanza. È quasi come ascoltarlo per la prima volta, o, meglio, è come se un miracoloso cortocircuito mentale permettesse di collegare di colpo due sfere di ricordi e sensazioni che finora erano sempre state tenute rigorosamente separate: la dimensione famigliare (ricordi di tanti venerdì sera al mare o in montagna), in cui si canta tutti insieme e una donna può sentirsi almeno in parte protagonista, e quella comunitaria, dove forse si può seguire qualche canto bisbigliando ma in sostanza non possiamo che essere spettatrici passive. So bene che non per tutte le donne la liturgia ha un ruolo così importante, ma io sono figlia di un hazan e sono cresciuta tra registrazioni di cassette e allievi che arrivavano a casa nostra a tutte le ore per ripetere, tra canti dello Shabbat ascoltati tutti i giorni della settimana e musiche festive sentite più e più volte con qualche mese di anticipo. Da qualche parte nel mio inconscio si è formata l’idea che officiare sia l’unico (o, almeno, il più autorevole) modo di esistere ufficialmente nella comunità. Assistere da lontano e partecipare bisbigliando è un po’ come esistere solo in parte.
Quella che giunge alle mie orecchie è un’affascinante contaminazione di novità e abitudine: la voce maschile che si alterna a quella femminile e la accompagna nel canto è quella a me ben nota di Shemuel Lampronti, apprezzato hazan torinese. Ed è importante sottolineare che la Kabbalat Shabbat organizzata una settimana fa a Firenze (ispirata al modello della sinagoga Shira Hadasha di Gerusalemme) si è volutamente mantenuta nei vincoli dell’ortodossia: presenza verificata di dieci uomini adulti (circostanza agevolata dalla concomitanza con Limmud); distinzione tra la Kabbalat Shabbat, fatta di soli salmi e poesie, condotta da una donna e l’Arvit vero e proprio, una preghiera “regolare”, da un uomo; uomini e donne seduti in circolo ma separati. Questo, dal mio punto di vista, è stato un valore aggiunto: aver trovato una formula inconsueta nel mondo ortodosso ma halakhicamente permessa, forse accettabile (pur con qualche borbottio) tanto dagli ortodossi quanto dai non ortodossi; di fatto persone con modi molto diversi di intendere l’ebraismo si sono riunite nella stessa stanza ad accogliere lo Shabbat tutte insieme, nella convinzione che ciò che ci unisce possa prevalere su ciò che ci divide. E, anche se ispirata a un modello esterno, è stata anche una scommessa sulla vitalità del modello unitario italiano. A mio parere, una scommessa vinta.
Anna Segre
(9 giugno 2017)