Cristalli di argilla

torino vercelliÈ spesso apprezzabile l’impegno devoluto alle cause di principio. Non tutte, va da sé, poiché i principi non si equivalgono, così come la diversità di visuali non implica l’equivalenza degli sguardi. Tuttavia, in certi ambienti (forse si dovrebbe dire in determinati “habitat”, a partire da quello virtuale), tale impegno rischia di rivelarsi una miscela tra sforzi inani, ossessive tautologie e defatiganti reiterazioni. Chi svolge una professione intellettuale è spesso chiamato in causa per comprovare la veridicità, o quanto meno la plausibilità, di altrui affermazioni. Le motivazioni che stanno a presupposto di queste richieste sono molteplici. La prima di esse è che chi studia dovrebbe sapere di più di chi non l’ha fatto. Come non essere quindi in accordo con quella che sembra costituire di per sé una evidenza, anche se la professione di cultura non sempre è una garanzia assoluta di autonomia, prestandosi anch’essa a piegature e manipolazioni di sorta? Non di meno, chi appella lo «studioso» nel convalidare il proprio dire, frequentemente non ha ad oggetto la conoscenza in quanto tale (un’attività che produce risultati spesso ambivalenti, o comunque illineari se non imprevedibili, rispetto a quanto molti dichiarano di essere disposti ad accettare in linea di principio) bensì l’affermazione delle proprie ragioni come imperativo assoluto. L’aspettativa è, in questo caso, molto netta. È come se si dicesse: “ti convoco a giudizio, ti chiedo di venire qui non ad esprimere la tua opinione ma esclusivamente per supportare la mia. Non voglio sapere che cosa davvero pensi; mi interessa, semmai, che tu dica che io sto pensando bene”. Si spende quindi l’altrui nome per la legittimazione delle proprie prese di posizione. C’è una diffusa retorica, quella dei «senza se e senza ma», ossia degli “a prescindere dai riscontri”, che da tempo ha paralizzato ogni forma di comunicazione, cristallizzandola, in maniera quasi maniacale, in una sorta di fotografia immutabile delle cose, dei fatti e dei loro protagonisti. Il tutto viene quindi tradotto in un involucro ideologico, basato sulla contrapposizione manichea, senza alcuna sfumatura, tra raffigurazioni antitetiche. Si tratta di uno schema mentale che dà un senso di sicurezza (quello che deriva dal sentirsi dalla parte “giusta”), anche se poi, alla resa dei conti, rischia di rivelarsi assai fragile: implica, infatti, che ci sia sempre una qualche “ragione superiore” che starebbe dalla “nostra parte”, in assenza di qualsiasi analisi critica. Rendendo quindi granitiche, e pertanto insindacabili, le convinzioni di cui ci si fa vessilliferi. Affinché ciò possa avvenire occorre senz’altro che esse siano decontestualizzate, sottraendole preventivamente a qualsiasi verifica che non sia la ripetizione dogmatica degli imperativi che si sono metabolizzati e che stanno alla radice del modo in cui ci pone nei riguardi della realtà della vita. Quasi che la vita dipendesse da questi e non viceversa. Anche da ciò, ovvero da questo atteggiamento di sorda intransigenza, che si maschera sotto le false spoglie di espressione vitale, esistenziale, comunque di sopravvivenza, deriva quella reazione aggressiva per cui chi non aderisce a tale impostazione è potenzialmente un “avversario”, rappresentando quindi una minaccia da neutralizzare. Il dubbio non ha cittadinanza. Semmai vale la regola del sospetto. C’è chi parrebbe dire, con fare inquisitorio: “come ti è permesso il baloccarti su certi pensieri, quando il nemico è alle porte? Non sai che così facendo porti acqua al suo mulino? Non hai capito che è in atto una lotta mortale? Se non stai sempre e comunque con noi è perché te la intendi con loro, quegli altri che ci vogliono distruggere”. Segnatamente, è ciò che si impone ad una parte dell’intellettualità araba e musulmana, non importa quanto minoritaria, quand’essa si sforza, timidamente, di scostarsi dall’asfissiante avversione nei confronti del «sionismo» come male assoluto, radicale, quindi «nazista». Ma non è un atteggiamento che riguardi una sola parte del mondo, coinvolgendo anche quella restante, sia pure con intensità ed estensioni mutevoli. Quindi, altro che «morte delle ideologie». Semmai fine della politica, quanto meno come terreno del conflitto e della sua mediazione, così come sua sostituzione con l’identificazione in una specie di causa al di fuori della storia, quindi in una idea che vive di luce sua propria, al riparo dalla realtà, che capovolge costantemente a suo beneficio. Si tratta di ideologia, per l’appunto, soprattutto laddove con questa parola si intende indicare letteralmente la «logica di una idea», il suo ripresentarsi continuamente, ossia il suo esistere in autonomia, senza che chi se ne fa carico senta il bisogno di confrontarsi con i dati di fatto. Tanto peggio per questi ultimi, quando non dovessero aderire alle proprie aspettative. Ad essa si accompagna l’intolleranza che insorge, come un moto spontaneo, quando si possono porre dei distinguo. L’accusa di “tradimento”, o quanto meno di ambiguità, quasi che si fosse sul pericoloso crinale della compromissione con il “nemico”, è pressoché immediata. Tutta l’attività scientifica, di ricerca, di studio e di riflessione si basa sulle distinzioni. Non è un vezzo; semmai è questione che rimanda alla sua stessa essenza, ovvero alla sua intrinseca ragione di esistere. L’uniformità di pensiero è allora la morte di qualsiasi principio di ragionevolezza come anche di costruzione non di un astratto sapere bensì di concrete conoscenze, quelle che si usano nella vita di relazione di ogni giorno. Va aggiunto, a volere rincarare la dose, che l’uniformità non necessariamente è l’antitesi di certe forme di razionalità, dove invece la costruzione paranoica si basa su una sequenzialità rigida, maniacale ma intrinsecamente coerente. Per questo che essa può risultare tanto suadente quanto seducente. Rimane il fatto che compiere distinzioni di fatto, stabilire scale di interpretazione, comparare e comprende non implica relativizzare l’ordine dei valori morali. Non tutto si equivale né, tanto meno, si deve tenere nel medesimo sacco, per così dire. È bene allora ricordarsi, a presente e futura memoria, che proprio l’essere parte di una qualche minoranza – non importa quale, da cosa connotata, come e da chi vissuta – del pari al sentirsi cittadini, implica il rispetto della varietà dell’umano, non la sua riduzione ad un unico denominatore. È un diritto, prima ancora che un dovere, quello che va esercitandosi in tale modo. Così facendo non si aprono le porte all’inumano, preservando semmai lo spazio della mediazione, quello tra individui in carne ed ossa, che non siano ridotti solo a marionette e burattini, maschere di una rappresentazione di una sorta di eterna messinscena. Questo riscontro, che dovrebbe essere tanto ovvio quanto condiviso, invece nel web, un habitat “informativo” che si alimenta di una potenza sua propria che a volte sembra sopraffare la vita di ogni giorno, cade nel volgere di pochi secondi, quando le comunicazioni, seguendo un copione tanto bislacco quanto prevedibile, trascendono in scene simulate, virtuali ma non per questo meno aggressive, di wrestling se non di vera e propria boxe. Oramai pressoché su tutto, o quasi. Anche sul semplice «buongiorno», a partire dal quale si innescano catene di comunicazioni sempre più rabbiose, letteralmente avvolte su di sé, quindi capaci di riprodursi quasi automaticamente. La Rete sembra avere prodotto una particolare categoria di giustizieri, quelli che convocano a processo chiunque possa essere considerato, o anche solo vagamente sospettato, di non costituire la copia conforme delle proprie convinzioni. Non si tratta solo di un meccanismo politico – che la storia ci consegna nitidamente con i processi staliniani – ma di una più generale disposizione d’animo alla diffamazione civile, alla proscrizione relazionale, all’emarginazione non tanto del dissenso bensì di un consenso ragionevole, come tale autonomamente argomentato e non prodotto dall’asfissiante riproposizione dei medesimi cliché. Forse quella malattia che è il “presentismo”, cioè l’essere compressi sempre e solo sul tempo corrente, nonché sul bisogno di clamore e di consenso a prescindere, vive di questa completa mancanza non tanto di ragioni e motivazioni bensì di capacità di offrirle ad un approccio pluralistico ed a lettura problematica senza che l’uno e l’altra siano vissuti come una rischio intollerabile. Ossia, senza per questo sentirsi messi sotto scacco o, ancora peggio, sull’orlo di una catastrofe. In quanto con la paura, e con le minacce, non si costruisce nessun futuro. I regimi totalitari ci hanno campato a lungo, finché gli è stato possibile. Poi, hanno trascinato le collettività nel proprio baratro. Oggi alla minaccia totalitaria (che non si identifica necessariamente con un regime politico o uno Stato bensì con una diffusa mentalità di crescente intolleranza, laddove questa può poi saldarsi con un qualche progetto politico) non si può rispondere altrimenti che con il richiamo al pluralismo. Tanto più necessario dal momento che il rischio di omologarsi è invece immediatamente dietro l’angolo, magari nascondendosi sotto le false sembianze di un richiamo a quella differenza che si basa esclusivamente sulla profonda diffidenza verso ciò che è vissuto come una minaccia, in quanto prodotto dell’ossessivo bisogno di una idea di uniformità che esiste solo nelle proprie fantasie e in ben poco d’altro.

Claudio Vercelli

(11 giugno 2017)