“La benedizione di papà sotto il talled”La Ferrara ebraica di Paola Bassani
Ci sono pagine di diario, fotografie e musiche che, alla prova del tempo, non solo non sbiadiscono, ma acquistano una grana più compatta, un significato più pieno, un’armonia più matura. Innanzitutto per chi li tira fuori dal proprio cassetto, come ha fatto Paola Bassani ieri pomeriggio, al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS, nell’incontro “Memoria e musica di una maggiorità religiosa ferrarese”. Nel corso di questo nuovo appuntamento del ciclo “Gallery Talks/Garden Talks”, la storica dell’arte figlia di Giorgio Bassani e Valeria Sinigallia ha recuperato un frammento ben preciso del suo passato, ovvero quando, a 12 anni, festeggiò il Bat Mitzvah presso la Comunità ebraica di Ferrara. Una giornata di festa già evocata dalla Bassani in “Se avessi una piccola casa mia. Giorgio Bassani, il racconto di una figlia” (a cura di Massimo Raffaeli e pubblicato da La nave di Teseo) e che al MEIS è rivissuta grazie agli spartiti eseguiti in quell’occasione, nel settembre 1958, e ora esposti nell’allestimento “Lo Spazio delle Domande”, e grazie soprattutto all’intensa interpretazione di quelle melodie da parte di Enrico Fink (voce e flauto) e Alfonso Santimone (pianoforte elettrico).
“Quando sono stata scelta come direttrice del MEIS – ha confidato Simonetta Della Seta –, ho subito preso contatto con Paola. Era inevitabile, anche perché il Museo cura e custodisce lo studio di suo padre, cui speriamo di poter dare presto una casa, a lavori terminati. Successivamente, mentre lavoravamo alla mostra, sono emerse le musiche di antica tradizione ferrarese compilate nel 1956 da Beniamino Ghiglia e utilizzate per la maggiorità religiosa di Paola. Infine, il suo libro: un acquerello delicato, semplice e toccante, che abbiamo pensato meritasse di essere narrato dal vivo”.
E così ha cominciato a fare Paola Bassani, in una sala gremita: “Al MEIS mi sento a casa. È un posto non provinciale, aperto al mondo e che oggi mi consente di ripercorrere uno dei momenti più belli della mia vita, in cui sono diventata indipendente dall’ebraismo, padrona di decidere se e quali precetti accettare”.
Un rapporto, quello con la religione, che in casa Bassani non implicava imposizioni né regole particolari: “Mia mamma era piuttosto osservante: il sabato non cucinava e celebrava il Kippur, ma non la Pasqua né il Seder, che trascorrevamo semmai dalla zia di Firenze, assai più ligia. Anche dalle nonne si mangiava di tutto. Però, per Rosh HaShanah, la mia nonna materna Enrichetta tirava fuori la tovaglia più bella, ci metteva sopra il melograno e diceva che la tavola era benedetta dall’angelo. Per me, a quei tempi, la religione era qualcosa di magico, una fonte di meraviglia. E quando si è trattato di fare minian e ho voluto seguire certe tradizioni, il papà non mi ha mai ostacolata, salvo poi commentare: “Fai benissimo a rispettare le usanze, così un giorno ti ribellerai!”.
A proposito di usanze, un posto speciale, per Paola, lo ha avuto l’abito del suo Bat Mitzvah: sontuoso, “da sposa, comprato dai cugini Pesaro, che avevano un negozio di fianco al Duomo di Ferrara. Ne ero così fiera e lo conservo ancora in un baule. Anche mia mamma era elegante e indossava un bellissimo tailleur turchese, dentro cui si muoveva in modo sobrio e defilato, come era lei, che ci lasciava sempre tanto spazio. Non si è mai messa in primo piano, ma ci ha lasciati vivere, facendo da cemento e collante della famiglia: me ne accorgo sempre di più”.
I genitori di Paola decisero di celebrare la sua maggiorità religiosa nella sinagoga tedesca di Via Mazzini, dove tutti – compresi i parenti sopraggiunti da mezza Italia – confluirono in corteo. “Ero al settimo cielo, ma poi accadde un imprevisto. Sotto le scale del Tempio, il rabbino riprese mio padre perché non portava il talled. Quando vide i miei occhi disperati, Giorgio accettò di mettersi il manto di preghiera e la funzione poté iniziare. Fu stupenda, con canti e preghiere in ebraico, che avevo imparato a Roma, dove abitavamo. Seguì un aperitivo a casa, quindi ci spostammo tutti in macchina al ristorante, per un pranzo infinito in campagna, in mezzo al frinire dei grilli. Fu una giornata un po’ ‘flaubertiana’: sembravano le nozze di Madame Bovary!”.
Prima dei grilli, a scandire il Bat Mitzvah erano state le musiche di Ghiglia, “che credo fosse amico di mio padre o volesse comunque fargli un piacere. Aveva composto quelle melodie nel 1956 e due anni dopo gliele offrì”.
Nel Giardino delle Domande del MEIS, quelle melodie sono state riproposte in chiave contemporanea da Fink e Santimone: un paio di brani da matrimonio – un Eshtekhà di matrice romana, ma in uso a Ferrara, essendo la città un crocevia di tradizioni diverse, e un Baruch Abba padovano, per l’ingresso degli sposi sotto la chuppah o al Tempio, nel Bar Mitzvah; un Veshamerù di rito italiano, che comanda l’osservanza dello Shabbat; un Lekha Dodi, in una versione di scuola ashkenazita-ferrarese, ma attestato pure a Venezia, nel Settecento, nella trascrizione di Benedetto Marcello; infine, il piyut secentesco del rabbino cesenate Samuel Archivolti, probabilmente in onore di una coppia di sposi.
La libera rilettura che Fink ha dato di quelle composizioni sembra echeggiare l’allergia di Giorgio Bassani ai vincoli religiosi: “La mia famiglia – racconta Paola – è sempre stata aperta alla cultura, anche cristiana, a un umanesimo ricco di sfaccettature. Mio padre ci conduceva nelle chiese antiche, non solo nelle sinagoghe, e del resto, pur essendo le sue radici ebraiche importantissime, si riconosceva piuttosto in una religione dello spirito, sulla scia di Benedetto Croce. Vedeva gli ebrei non come un popolo o un’aristocrazia, ma come parte di quel ceto medio che è la borghesia italiana, come cittadini emancipati e intraprendenti, abituati a vivere del proprio lavoro. Non a caso, ogni volta che l’Italia ha subito una regressione politica o storica – governi oscurantisti, ghetti, leggi razziali –, gli ebrei sono stati perseguitati. Per Giorgio, essere antifascista era del tutto coerente con le sue origini ebraiche, con i suoi ideali di giustizia e libertà”.
E per Paola Bassani, che cos’è la fede? “Mi sento profondamente ebrea e considero l’ebraismo un fatto morale. Ho, poi, elaborato una mia particolare religione dei morti, con le nonne e mamma Valeria come divinità del focolare. Forse sono un po’ più credente di mio padre, ma qualcosa di trascendente c’era pure in lui. Quando leggeva Dante, ad esempio, gli veniva la pelle d’oca, era un’esperienza mistica. E sentiva di dover scrivere, come ha fatto per tutta la vita, credendo in certi principi senza scendere a compromessi”.
Talmente fedele ai propri principi da essere definito dalla figlia “quasi un rabbino! Era molto ebraico, nel senso che talvolta aveva atteggiamenti biblici, solenni, persino minacciosi. Quando, ad esempio, gli comunicai che volevo sposarmi prima della laurea, per proseguire gli studi a Parigi, mi disse di fare come mi pareva, ma di non contare sulla sua benedizione. Con lui non c’era da scherzare e infatti, alla fine, mi sono coniugata solo dopo aver discusso la tesi…”.
Lo stesso Bassani – rivela per la prima volta Paola – “che per il mio Bat Mitzvah mi benedisse sotto il talled, invocando la protezione del Signore, il suo conforto e la pace. Credo che quella giornata gli sia servita per la sua letteratura. Aveva appena dato alle stampe Gli occhiali d’oro e stava per cominciare la stesura del Giardino dei Finzi-Contini. Tra le scene fondamentali del romanzo, c’è proprio la funzione al Tempio, con il giovane Giorgio che si nasconde sotto lo scialle, esattamente com’era successo nel 1958. Prima mio padre non voleva nemmeno saperne e ora, invece, ne parlava come di una specie di tenda protettiva e accogliente. Un po’ come, nei miei ricordi di bambina – tutti circoscritti al perimetro al contempo ampio e strettissimo del giardino della nonna –, era rassicurante la grande magnolia, sotto la cui ombra abbiamo trascorso tante ore, investiti dal suo profumo”.
Daniela Modonesi
(13 giugno 2017)