STORIA L’ambiguità di Balfour

sionismoArturo Marzano / STORIA DEI SIONISMI. LO STATO DEGLI EBREI DA HERZL A OGGI / Carocci

Singolare accoppiata di ricorrenze per la storia di Israele. Quest’anno non cadono solo i cinquant’anni dalla guerra dei Sei giorni (giugno 1967), ma anche i cento dalla Dichiarazione Balfour (novembre 1917). In più saranno anche centonovanta anni dal primo viaggio in Palestina di Moses Montefiore (1827) che avrebbe poi fondato un importante quartiere ebraico a Gerusalemme; centoventi anni dal congresso di Basilea (29-31 agosto 1897) che segnò la nascita del sionismo politico di Theodor Herzl e i settanta dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (1947) che rese possibile la fondazione di uno Stato ebraico in Palestina. In Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, che sta per essere pubblicato da Carocci, Arturo Marzano ricorda che il congresso di Basilea inizialmente avrebbe dovuto tenersi a Monaco ma dovette essere spostato per l’ostilità dei leader della comunità israelitica bavarese che ritenevano inesistente la «questione ebraica» (quantomeno nell’Europa centro occidentale) e non volevano offrire «argomenti» all’antisemitismo tedesco. Furono molte le comunità ebraiche a rifiutare l’invito a Basilea, tra le quali quella britannica. Ma Herzl considerò comunque quella «partenza» felice e iniziò a discutere con tutti gli interlocutori disponibili circa la realizzazione del suo sogno. Con il ministro delle colonie britannico, Joseph Chamberlain, trattò sull’ipotesi di Cipro — scartata dagli inglesi perché per loro troppo importante come base strategica al centro del Mediterraneo — su El Arish (costa mediterranea della penisola del Sinai) e su un’area di circa tredicimila chilometri quadrati in Kenya. Su quest’ultima idea, definita per una bizzarria «proposta ugandese» si giunse quasi ad un accordo. Che Herzl sottopose al sesto congresso sionista (1903, ancora una volta a Basilea) non riuscendo però a persuadere la delegazione russa. Ma Herzl non si diede per vinto e riuscì a convincere il 62,4 per cento dei delegati a pronunciarsi positivamente. Era fatta: lo Stato di Israele sarebbe nato — con l’accordo di Londra — in Kenia. Di lì a pochi mesi, però, nel 1904 Herzl, all’età di soli quarantaquattro anni, morì e l’opzione «ugandese» fu rimessa in discussione. Nel 1905 al settimo congresso di Basilea i sionisti optarono definitivamente per la Palestina dove non avevano mai smesso di comprare terre. Quasi nessuno si pose in modo approfondito il problema di cosa ne sarebbe stato degli arabi che già abitavano in quella regione. Con l’eccezione di Asher Ginzberg, Hillel Zeitlin, e Yitzhak Epstein il quale nel 1907 diede alle stampe l’articolo Una questione nascosta, in cui scrisse: «Abbiamo dimenticato un piccolo particolare, nel nostro amato Paese c’è un’intera nazione che lì ha vissuto per secoli e mai s’è sognata di abbandonarlo… Stiamo commettendo un enorme sbaglio psicologico nei confronti di un popolo grande, determinato e possessivo». Lo scalpore provocato dallo scritto di Epstein fu notevole, ma l’acquisto di terre palestinesi da parte dei sionisti proseguì. Anzi, si incrementò. Centoventi anni fa, un mese prima che a Basilea nascesse il sionismo politico, a Vilnius era stata creata la Lega generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Russia, Polonia, nota come Bund. Attenta è l’analisi di Marzano dell’antisionismo del Bund, il cui slogan era «nazione senza Stato». Il Bund si batteva per un’autonomia culturale che gli ebrei avrebbero dovuto realizzare nei Paesi in cui vivevano mettendo l’accento su un’identità che si sarebbe espressa facendo leva sulla loro lingua, lo yiddish. Altra forte opposizione al sionismo fu quella dell’ebraismo ortodosso: i loro rabbini, scrive Marzano, sostenevano che poiché la diaspora rappresentava la punizione di Dio per i peccati del popolo ebraico, soltanto Dio avrebbe potuto porvi rimedio permettendo il ritorno a Sion. Gli ortodossi diedero vita ad un’organizzazione, Agudat Yisrael, presente in moltissime comunità con l’obiettivo di «condurre una ferma lotta contro il sionismo» con «espulsioni dalle sinagoghe, denunce alle autorità, ostracismo». Nel frattempo la guida del movimento sionista da Herzl era passata dapprima a David Wolffsohn, poi a Otto Warburg. La loro sede principale era stata trasferita da Vienna a Colonia e successivamente a Berlino. Ma, osserva Marzano, «se la sede si spostava all’interno della Germania, dimostrando come la nomenclatura sionista fosse vincolata a tale Paese, le nuove leve dell’Organizzazione si trovavano in Gran Bretagna; qui infatti si era stabilito Chaim Weizmann, presto raggiunto da Nahum Sokolow». E fu Weizmann che, a Londra, portò a termine l’impresa. Lord Arthur James Balfour aveva già incontrato Weizmann, nel 1906. Balfour, che nel 1906 era premier britannico, chiese a Weizmann perché mai gli ebrei avessero rifiutato la «proposta ugandese». Weizmann rispose che qualsiasi «deviazione dalla Palestina sarebbe stata una forma di idolatria» e aggiunse: «Se Mosè avesse preso parte al sesto congresso sionista che decise di adottare la risoluzione a favore dell’Uganda, avrebbe certamente rotto le Tavole della Legge una seconda volta». Poi domandò al primo ministro: «Supponga che io le offrissi Parigi al posto di Londra, lei accetterebbe?». «Ma dottor Weizmann», fu la risposta, «noi abbiamo già Londra». Al che quest’ultimo puntualizzò: «E’ vero … Ma quando noi avevamo Gerusalemme, Londra era una palude». Trascorsero undici anni e Balfour, stavolta nei panni di ministro degli Esteri in piena Prima guerra mondiale, riprese la discussione con un altro rappresentante del mondo ebraico, Lord Lionel Walter Rothschild, presidente della Federazione sionistica britannica. Era dal 1845 che Edward L. Mitford, un capo dell’amministrazione coloniale inglese, aveva proposto il «ristabilimento della nazione ebraica in Palestina come Stato protetto sotto la guardia della Gran Bretagna». Più che gli ebrei a Mitford interessava il controllo delle vie di comunicazione e di quelle commerciali. Così come al colonnello George Gawler, governatore dell’Australia. Nel 1853, il colonnello Charles Henry Churchill, console britannico a Damasco, sottolineò «l’importanza per la strategia britannica del Mediterraneo Orientale e l’utilità di un’alleanza con gli ebrei». Churchill sostenne che la Palestina avrebbe dovuto essere «o inglese o uno Stato indipendente in mano agli ebrei». Solo così gli interessi britannici avrebbero potuto essere tutelati al meglio. Churchill, mette in rilievo Marzano, «fu dunque in qualche modo il primo a teorizzare la nascita di uno Stato ebraico, anticipando di quasi cinquant’anni il sionismo politico». L’apertura, nel 1869, del canale di Suez (alla cui realizzazione Londra si era opposta) rese ancor più rilevanti per la Gran Bretagna l’Egitto — che lo era già — e la Palestina, fino a quel momento relativamente trascurata. Nel 1876 la gestione egiziana del canale andò in bancarotta e fu la Banca Rothschild a prestare al governo inglese (guidato da Benjamin Disraeli, un ebreo sefardita convertito al cristianesimo) i soldi — quattro milioni di sterline, una cifra enorme — per acquistare il 44 per cento delle azioni della Compagnia del Canale. Ed ecco che nel 1917 un importante membro di quella stessa famiglia Rothschild toma a sedersi al cospetto di un rappresentante del governo inglese. La discussione nel 1917 fu lunga e complicata. Ma fruttuosa. E si concluse il 2 novembre, allorché Balfour rilasciò a Rothschild una dichiarazione che impegnava Londra nella realizzazione del sogno sionista. La formula usata in questa dichiarazione fu quella dell’auspicio della «creazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico». I sionisti avrebbero preferito il termine «ricostruzione» (al posto di «creazione»). E avrebbero voluto che si dicesse «del focolare nazionale» e non «di un focolare nazionale». Ma gli inglesi — che ritenevano di aver concesso fin troppo — furono irremovibili. Gli arabi nel testo della Dichiarazione non venivano nominati (pur rappresentando all’epoca, fa notare Marzano, il 92 per cento della popolazione locale). Furono soltanto ritenuti titolari di diritti «civili» e «religiosi», ma non «nazionali» come invece era per gli ebrei. Sicché il Mandato britannico sulla Palestina — approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni il 24 luglio 1922 – incorporando la dichiarazione Balfour, nei fatti fu impegnato a sostenere la costruzione di una sede nazionale per la minoranza ebraica in Palestina, anche se nella doverosa difesa dei diritti della maggioranza araba. Tra le ipotesi su quale fosse il reale obiettivo della dichiarazione, Marzano cita quella di spingere la comunità sionista russa a mobilitarsi per evitare che il loro Paese si ritirasse dalla guerra; quella per cui Londra mirava a ottenere l’appoggio della comunità ebraica statunitense cosicché gli Usa partecipassero al conflitto con maggior decisione; quella per cui il governo inglese avrebbe anticipato quello tedesco il quale avrebbe potuto, con un impegno analogo, attirare le simpatie del movimento sionista e ricevere dalla propria comunità israelitica un appoggio per la prosecuzione dell’impegno bellico. Va osservato che le motivazioni ufficiali circa l’opportunità di sottoscrivere un tale impegno contenevano considerazioni che oggi saremmo portati a considerare politicamente scorrette. Lloyd George disse che riteneva opportuno «stipulare un contratto» con gli ebrei per via della loro «vasta influenza». Il diplomatico inglese Mark Sykes, che assieme al suo omologo francese Georges Picot già nel 1916 aveva firmato l’accordo segreto che conteneva la mappa dei futuri Stati mediorientali, sosteneva in pubblico che, se «l’ebraismo influente» si fosse schierato contro l’Inghilterra, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di vincere il conflitto. Secondo lo storico Eugene Rogan la Dichiarazione Balfour fu il prodotto di «considerazioni di un tempo di guerra» infarcite di una certa dose di inconsapevole antisemitismo. A cominciare dall’idea che i sionisti parlassero per conto della «potenza politica ed economica di una diaspora ebraica compatta». In ogni caso il cognome Balfour da quel momento è tornato assai spesso sui media. Recentemente, in una lettera al «New York Times» il conte Roderick Balfour, erede diretto del ministro che nel 1917 firmò la Dichiarazione, ha acceso una polemica sostenendo che «la crescente incapacità d’Israele di affrontare la condizione dei palestinesi, nonché l’espansione degli insediamenti ebraici in territorio arabo sono i principali fattori di crescita dell’antisemitismo in tutto il mondo». Proprio così: «in tutto il mondo». Gli ha risposto il celeberrimo avvocato liberal Alan Dershowitz, dicendosi convinto che «chi odia gli ebrei “in tutto il mondo” perché non condivide la politica di Israele, sarebbe pronto a odiare gli ebrei comunque, in base a ogni altro possibile pretesto». Dershowitz si è poi domandato perché non ci sia mai stata un’esplosione di sentimenti anticinesi «in tutto il mondo» a causa dell’occupazione cinese del Tibet. «Se gli ebrei sono l’unico gruppo che soffre a causa delle controversie politiche di un governo, quello israeliano», è stata la sua conclusione, «la responsabilità ricade tutta sugli antisemiti e non sullo Stato nazionale del popolo ebraico». Ed è anche questa una parte della lunga eredità di Balfour.

Paolo Mieli, Corriere della Sera, 13 giugno 2017