Deformazioni

lucreziCom’è ben noto, e come siamo costretti purtroppo costantemente a ripetere, ogni difesa, a qualsiasi livello, di Israele e dell’ebraismo, deve sempre fare i conti, oltre che con le molte e varie armi – missili, carri armati, coltelli, pietre, camion, auto, gru… – dei molti e vari nemici, anche con l’eterno problema della velenosa deformazione operata da ampia parte degli organi di informazione, che, quando trattano di tali tematiche, fanno a gara, in molti casi, a calpestare i più elementari doveri di equilibrio e correttezza deontologica.
Israele, in particolare, già da prima di nascere, oltre a essere stato costretto a combattere le sue tante guerre, è anche stato continuamente obbligato a combatterne un’altra, giorno per giorno, minuto per minuto, contro una certa stampa ostile e faziosa, che descrive la realtà non per quello che è, ma per quello che si vorrebbe che fosse. Non si capisce tanto se ciò avviene per venire incontro alle larghe fasce di opinione pubblica nostalgiche delle vignette dello “Stuermer”, o per “educare le masse”, propinando agli ignari lettori quotidiani abstract dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion. È la vecchia domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina.
Se paragoniamo l’informazione a un vetro, una finestra che permetta di vedere quello che c’è al di là, questo vetro, quando si tratta di Israele, ha quasi sempre qualcosa di particolare: o è sporco, o è rotto, o è deformante, o è oscurato su un lato, o è sapientemente coperto, a cadenze regolari, da scure tapparelle, che vengono abbassate quando c’è qualcosa che non si deve vedere, e alzate quando invece si deve guardare. Se la paragoniamo, invece, a un microfono, c’è sempre uno strano difetto di connessione, per cui, per la maggior parte del collegamento, non si sente niente, mentre, a volte, si sente a volume assordante. E ciò non avviene mai a caso, ma sempre secondo un’accorta, sapiente regia. Se l’informazione è la base, il presupposto, di ogni giudizio, di ogni confronto, di ogni libero ragionamento, l’informazione sullo Stato ebraico è sempre qualcosa di diverso. È parte in causa, elemento attivo del gioco: crea essa stessa la realtà che commenta, facendo sì che chiunque voglia davvero informarsi su Israele deve (o dovrebbe) innanzitutto cominciare a informarsi sull’informazione, in un estenuante e infinito gioco di scatole cinesi.
Sono cose che sappiamo, come ho detto, e non sono neanche certo di poter dire che oggi sia peggio di ieri (forse il titolo di un giornaletto, di cui non vale la pena fare il nome, che ha commemorato la Guerra dei Sei Giorni come inizio della “Shoah palestinese”, potrebbe indurre a pensarlo, ma amenità del genere ce n’erano anche prima). Quel che mi sento con sicurezza di dire, però, è che tale degrado, nella deontologia giornalistica, sta aumentando in modo esponenziale, nel nostro Paese (e, credo, nel mondo), e non solo nei riguardi dell’informazione sui fatti medio-orientali. Sono giornalista pubblicista da ormai 25 anni, e sono molto orgoglioso della mia tessera, che porto sempre con me. E, come tutti i miei colleghi, sono stato lieto di acquisire i necessari crediti per l’aggiornamento professionale, attraverso interessanti lezioni (frontali o “online”). Ho avuto il piacere di ripassare, o di imparare, molti punti essenziali per l’esercizio della professione: il dovere della verifica rigorosa dei dati; l’obbligo di rettifica in caso di notizie errate; la distinzione tra fatti e opinioni; il divieto di notizie suggestive o tendenziose; la protezione dei minori e dei soggetti deboli; l’obbligo del contraddittorio in caso di opinioni lesive della reputazione personale; la protezione imprescindibile della dignità della persona; la proibizione della manipolazione dei dati; l’uso appropriato delle immagini; il divieto del ritocco spettacolarizzante delle foto (tipo aumentare col photoshop il sangue delle ferite); la tutela dell’onore anche per il “senza onore”; l’indicazione delle fonti della notizia, e la salvaguardia della loro riservatezza solo nei casi espressamente previsti dalla legge; la distinzione tra satira e contumelia; la tutela della privacy e dei dati sensibili; il rifiuto delle enfatizzazioni deformanti; il massimo rigore nel propagare notizie che riguardino la pubblica salute o sicurezza; il “diritto all’oblio”; la netta separazione tra notizie e pubblicità; il dovere della selezione imparziale delle notizie “pro” e “contro”; l’assoluto rispetto della libertà di critica e di opinione, e la tutela intransigente della libertà di pensiero, soprattutto per gli avversari ecc. ecc.
Tutti principi di civiltà, sacrosanti, giusti, inviolabili. Quanto vengono rispettati, al giorno d’oggi? Quanto vengono sanzionate le infrazioni? Quanto sono vigili e attivi i Consigli degli ordini professionali e le apposite commissioni di disciplina, i cui complicati meccanismi di funzionamento ho dovuto apprendere per superare i quiz alla fine delle mie lezioni online? Quanto, in definitiva, sopravvive della deontologia giornalistica nel barbaro e violento mondo del web, dove a dettare legge è solo la violenza e la forza dell’insulto e dell’invettiva, la demolizione aggressiva dell’avversario non per le sue idee, ma come persona? Un mondo nel quale la distinzione tra verità e menzogna è praticamente azzerata e, anzi, le “fake-news” appaiono le sole notizie gustose e interessanti, mentre le notizie “vere” sono considerate noiose e inutili?
Può essere, questo, un motivo di consolazione, nel senso che le cose non vanno male solo per Israele? O, piuttosto, di ulteriore sconforto?
Per usare le parole di una nota trasmissione televisiva di una trentina di anni fa: “la seconda che hai detto”.

Francesco Lucrezi, storico

(14 giugno 2017)