Leibowitz tra terra ed eternità

Giorgio BerrutoNel cinquantesimo anniversario dalla Guerra dei sei giorni e l’unificazione sotto il controllo israeliano di Gerusalemme, non sono mancate le strumentalizzazioni della storia a fini politici di chi ha dipinto il conflitto come una guerra di liberazione, così come i ben più numerosi tentativi di erodere la legittimità di Israele dipingendolo come aggressore e potenza intenzionalmente protesa all’occupazione. Ho l’impressione che queste due posizioni abbiano un significativo elemento comune: entrambe ritengono che il 1967 sia da considerare come un inizio, e non un momento di una lunga storia, quella dell’autodeterminazione politica e dell’autodifesa di Israele. Inizio della liberazione o dell’occupazione, ma pur sempre un inizio. Tanto più che liberazione e occupazione hanno in comune l’oggetto, la terra, intesa come estensione di zolle, terreno.
A questo proposito mi sembrano significativi alcuni passaggi contenuti nel volume “Le feste ebraiche”, una collezione di interventi di Yeshayahu Leibowitz pubblicato da Jaca Book. “Esistono tra noi molte persone che creano e sviluppano ideologie e principi di fede partendo da idee come quelle della conquista e della liberazione dell’intera terra d’Israele, e dell’insediamento e dell’installazione in essa degli ebrei, e che pretendono di attribuire a queste visioni un significato, per così dire, religioso. Sentiamo frequentemente parlare della santità della terra, e del fatto che la sua conquista e l’insediamento in essa possiedano una specie di valore assoluto”. Secondo Leibowitz è necessario “cacciare dalla nostra mente queste idee chiaramente idolatriche, capaci di generare in noi la sensazione che prospettino la realizzazione dei valori ebraici” (pp. 95-96). Altrettanto grave è predicare l’eternità della terra o del popolo (e a maggior ragione di una costruzione politica statuale o di una città): “Non vi è nessuna eternità garantita per qualsivoglia realtà umana, nemmeno per il popolo e la terra; e chi si appropria di questo attributo divino per applicarlo, intenzionalmente, al popolo d’Israele, si trova nella condizione di oltraggiatore e bestemmiatore. E sarà meglio che questi stupidi pii, prigionieri della convinzione insipida e vuota, comoda e insignificante, che la liberazione di Israele avverrà in modo incondizionato, non nominino il nome di Dio invano” (p. 108).
 
Giorgio Berruto, HaTikwà/Ugei

(22 giugno 2017)