Uno, nessuno, centomila

vercelli«Uno vale uno». Quindi, quanto vale il vicepresidente della Camera? Soprattutto, per conto di chi parla e di cosa va parlando? Luigi Di Maio, premier in pectore del Movimento cinque stelle, a «Porta a Porta», trasmissione della quale, se bene ricordiamo, aveva chiesto, insieme ai suoi colleghi di gruppo parlamentare, la chiusura, accomodatosi ora sugli scranni televisivi ha affermato che la missione del suo partito, è di portare avanti «i valori di Berlinguer, di Almirante e della Dc». Da un punto di vista ideologico (è il caso di usare questa parola) parrebbe essere un azzardo che sa di minestrone fuori stagione. Forse un pout-pourri. Comunque sia, qualcosa di difficile da mandare giù e al limite dalla indigeribilità. Dopo di che, visto che la formazione politica di Grillo e Casaleggio non è certo nuova ad exploit di tal genere, ed in tutta probabilità altri ne riserverà al pubblico, nei tempi a venire, vale la pena di capire quale possa esserne la sua ragione. Tralasciamo le polemiche politiche in senso stretto, così come quelle sulle leggi votate, non votate, rifiutate, oppure delle quali è stato detto che sarebbero state votate in un certo modo per poi, invece, fare in senso esattamente opposto, con motivazioni tra il bizzarro, l’eclettico e, soprattutto, il disinvolto. Tralasciamo anche la retorica suadente e pericolosa della palingenesi sociali (“noi cambieremo tutto!”) e andiamo al merito dell’affermazione della giovane promessa, l’astro già nato del panorama politico italiano, che studia per fare il presidente del Consiglio, cosa che evidentemente non gli ha concesso il tempo per fare altri studi. A scuola come nella vita. Veniamo quindi al dunque. Mettere insieme due uomini politici tra di loro agli antipodi per poi collegarli al partito di maggioranza relativa contro il quale lottavano, salvo scendere a compromessi ogniqualvolta fosse risultato loro necessario, sta evidentemente dentro una logica precisa. Nulla toglie o aggiunge a tale considerazione il fatto che ai funerali dell’uno come dell’altro, nel 1984 e poi nel 1988, in maniera del tutto riservata, uno o più esponenti della parte opposta abbiano silenziosamente e in maniera molto appartata reso omaggio alle salme dei defunti. Qualcuno ha voluto benevolmente identificare in ciò il senso di quella scelta di essere oltre gli orizzonti del Novecento che caratterizzerebbe il partito grillino. Come dire: Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e la «balena bianca», a prescindere dal loro concreto tempo storico, come tre medaglioni appesi al muro o conservati con affetto ma nella naftalina del ricordo. In realtà, l’osservazione non poi è del tutto fuori luogo, a patto, comunque, di corredarla di un chiaro inciso. Così facendo, infatti, di Berlinguer, come di Almirante, non si richiamano le posizioni politiche da essi a loro tempo sostenute, bensì l’iconografia e la mitografia che le loro immagini pubbliche, traslatesi nel corso del tempo, hanno alimentato tra quanti li conobbero (magari per contestarne allora le nette prese di posizione), e che adesso ne coltivano una sorta di memoria traslata. Non diversamente da coloro che non hanno fatto in tempo a sapere di essi se non attraverso i racconti dei meno giovani. Due santini, come tali sottratti alla concretezza, così come alla contraddittorietà, dello loro scelte. È come se Di Maio dicesse: erano «brave persone» e noi, che siamo un movimento di «onesti», tali perché riduciamo la politica a questa esclusiva opzione, ne recuperiamo il lascito in chiave atemporale e decontestualizzata. Bella affermazione, se non fosse per il fatto che ha tutto il sapore di una scelta da supermercato delle idee. L’onestà e l’essere integerrimi (due discorsi che sul piano politico rischiano tuttavia di annullarsi agli occhi dei rispettivi avversari di allora) sono solo una parte dell’offerta politica. Poiché la politica non è riducibile ad una mera categoria morale. La politica, semmai, è conflitto tra interessi diversi, se non contrapposti. Per questa sua natura, implica scelte, anche molto partigiane, non meno che contrapposizioni secche e quindi irriducibili alle sole istanze etiche. Ai duellanti si chiede di rispettare le regole del confronto, non di abbracciarsi. Mentre è bene ricordare che è tipico dei regimi monocratici e totalitari il predicare (nel nome di un’etica superiore, di cui il partito, lo Stato, ma anche la razza, la classe, il “caro leader”, al limite il “movimento”, si autonominano numi tutelari, e come tali insindacabili) il presunto valore morale della propria linea politica, che in sé assorbirebbe tutto e tutti, soddisfacendone ogni esigenza. Quale sarebbe, nel qual caso, la necessità di avere un’opposizione, se già quel tutto e quei tutti stanno dentro le realizzazioni di tali organizzazioni politiche “onnicomprensive”? Il «qui non si parla di politica o di altra strategia. Qui si lavora», uno degli slogan prediletti dal fascismo e vergato a caratteri ben visibili nei locali pubblici, richiamava questo principio: non si parla di politica perché c’è già il regime che ci pensa. Per quale ragione sprecare fiato? Che si lavori silenziosamente, abbassando quindi la testa e accentando l’altrui volontà onnisciente. I valori di Berlinguer e Almirante, così come l’agire politico della Democrazia cristiana, erano spesso tra di loro inconciliabili poiché non simulavano una improbabile sintesi. Magari nel nome di una presunta morale superiore, quasi che poi i duri conflitti della storia repubblicana potessero risolversi in una sorta di abbraccio con contorno di tarallucci e vino. Se qualche compromesso vi fu avvenne per reciprocità di convenienza e non per “idealità”. Ciò che si chiedeva ai più, semmai, era di rispettare le regole del gioco politico, che rimandavano alla lealtà costituzionale. Le tentazioni di farne a meno furono molte, e variamente manifestate. Lo stesso Almirante, così come il Movimento sociale italiano, per sua dichiarata natura, operavano nel sistema istituzionale repubblicano e democratico ma ribadivano che la vera fonte di legittimazione della loro politica risiedeva nel fascismo storico. Così come Berlinguer, e il Partito comunista italiano, benché come leader e partito saldamente incardinati nel circuito rappresentativo, amministrativo, decisionale del nostro Paese, di cui concorsero a modellarne il volto e la storia, tuttavia pensando a lungo che un modello imprescindibile di riferimento riposasse nei regimi a «democrazia popolare» e nel centro moscovita. Tutto ciò, e molto altro che in queste righe non può essere ricordato, per dire che Almirante, Berlinguer, i maggiori esponenti della Democrazia cristiana, a partire da Alcide De Gasperi, non vanno ricordati tanto come uomini «onesti» bensì come tenaci combattenti politici, come tali contrapposti tra di loro non solo da idee ma anche da valori diversi se non antitetici. La politica è questa cosa qui, che piaccia o meno. Se non piace, meglio astenersene. Mentre il Movimento cinque stelle, nel suo maniacale richiamo ad un «morale pubblica», dove tutti sono potenziali ladri, fuorché quelli della propria parte, sempre più spesso assomiglia ad un’agenzia di marketing politico, che offre sul “mercato delle identificazioni” quello che, di volta in volta, ritiene più appetibile e, quindi, per sé premiante. In altre parole, si fiuta scaltramente qual è la direzione del vento e ci si comporta di conseguenza, lanciando messaggi agli elettori senza assumersi l’onere della responsabilità. Quando c’è qualche problema, è sempre colpa degli «altri». In questo modo di comportarsi è facile identificare molte reciprocità con quei movimenti populistici, a base monocratica, oggi piuttosto diffusi in diversi paesi non solo dell’Europa. Ma a patto di non volere vedere una coerenza ideologica che, per il grillismo, non sussiste; semmai, di tali soggetti condividono una sorta di indirizzo onnivoro (appropriarsi di suggestioni, spunti, parole d’ordine), senza per questo cercare di dare a ciò una coerenza programmatica. Torna allora in mente il fin troppo citato Gramsci del 1921, quando osservava, dei fenomeni del suo tempo, che: «il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano». Il tutto affermando di volere ripulire il Paese dalla «corruzione». Molto di più, in termini di analogie, tuttavia, non si può dire, ritornando all’oggi. Nessuna indebita sovrapposizione, in altre parole. Semmai il termine chiave parrebbe rimandare ad un opportunismo delle circostanze. L’impressione che se ricava è che una parte del «nuovo che avanza» non sia composto da politici; semmai la loro natura è essenzialmente quella degli imprenditori della politica, che hanno compreso come ci sia un’ampia sacca di elettori disillusi, stanchi, demotivati se non disincantati, ai quali offrire, con un gioco opportunistico, una breve emozione alla quale credere o una lunga illusione nella quale riconoscersi. Tuttavia, questo spazio – che è essenzialmente commerciale, poiché deriva dalla riduzione dell’azione politica a vendita di sensazioni, partendo dall’immancabile «indignazione» -, questa breccia nell’impotenza di una società infiacchita, non l’hanno creata loro, essendone perlopiù sintomo e non causa. In Italia si è manifestata già, nei suoi prodromi, durante gli anni Ottanta, quando c’era chi credeva, da politico quale invece allora era e rimaneva, di potere scardinare gli assetti vigenti a proprio vantaggio. Quando il gioco produsse i suoi effetti, tutti crollarono, per poi permettere a soggetti impolitici di capitalizzarne i ritorni. Tuttavia, oggi, il fenomeno è per più aspetti continentale, se non transcontinentale. Il Movimento che si è raccolto intorno a Beppe Grillo e Davide Casaleggio sembra goderne alcuni dei benefici. Tuttavia con il rischio che l’autovalorizzazione personale sia spacciata per interesse collettivo, poiché essi ci raccontano di come ciò che resta della politica potrebbe rivelarsi una miscela tra illusionismo, incoerenza programmatica e falsa intransigenza. Sempre più tentati, come certuni all’atto pratico si rivelano essere, di fomentare i risentimenti comuni, sapendo che sono un buon propellente, anche se a corto raggio. Dove plausibilmente cadranno, prima o poi, tuttavia lasciando dietro di sé una scia di macerie, è sulla questione strategica del personale politico e amministrativo. Non solo non lo hanno ma rivelano di non volerlo formare, probabilmente per mantenere quello stato di fluidità grazie al quale non debbono rispondere delle proprie (non) scelte, sia internamente (lasciando alla coppia Casaleggio-Grillo un ampio margine di gestione verticistico-carismatica), sia rispetto agli elettori. Fluidità – o se si preferisce “liquidità” – indica non la condizione di assenza di regole ma la loro continua mutevolezza, in funzione dei rapporti di potere che di volta in volta si stabiliscono. La “stabilizzazione del carisma”, infatti, comporterebbe obblighi – e verifiche insieme a giudizi e selezioni – ai quali l’apice del Movimento intende sottrarsi a prescindere. Ed allora sorge il sospetto che certuni non vogliano cambiare nulla, se non la propria condizione personale. Con buona pace degli «onesti». Ah, per chiudere queste riflessioni, ci si conceda un rimando, tra i diversi possibili, ai «valori» di uno dei summenzionati, Giorgio Almirante, quando andava affermando che: «Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore […]. Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue». Quali e quanti valori, di «razza»!

Claudio Vercelli

(25 giugno 2017)