Se la banalità diventa slogan
Le fortune di un libro dipendono da molti fattori; nel caso di Hanna Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), le tessere del mosaico c’erano tutte: a) un titolo che funzionava come uno slogan, b) un’autrice yekke, per capirci, come Einstein, Marx e Freud e soprattutto, c) un testo documentato e preciso, essenziale per un’opera fatta a tesi. Il tutto corredato da una tempesta di polemiche di tale portata da assicurarne l’imperituro successo. Ciliegina sulla torta (si fa per dire): asserire che i malvagi siano banali è quanto di più vicino ci possa essere ad una spiegazione consolatoria. Oltre che alla banalità, la Arendt fa riferimento talvolta anche alla stupidità e all’autoinganno. La banalità del male è diventata uno slogan, ed è bizzarro che questo possa essere stato l’esito dell’impegno intellettuale di una sofisticatissima filosofa, anche se di bizzarrie ne fece, perché è difficile qualificare altrimenti il suo rapporto anche affettivo col filosofo esistenzialista Martin Heidegger, che sostenne fra altro che gli ebrei si fossero auto annientati.
Ora è giunta la versione italiana di un lungo lavoro di Stangnethsulla vita di Eichmann prima del processo, presentato come uno spartiacque con l’opera della Arendt, in quanto la cesura temporale non fa che esplicitare l’esistenza di una differenza pressoché ontologica fra l’Eichmann degli anni anteriori alla cattura e l’Eichmann imputato in un processo che lo porterà all’impiccagione. Poiché non potrebbe revocarsi in dubbio che l’atteggiamento del secondo fosse condizionato dal processo, appare ovvio che il maggior tasso di veridicità non può che discendere dai tempi pregressi. La Stangneth considera che la Arendt sia caduta nella messinscena di Eichmann, individuo svelto e con ottime capacità argomentative, il quale si sarebbe presentato al processo come un burocrate ottuso per confondere le acque. La questione è alquanto complessa, perché sull’atteggiamento di Eichmann al processo possono aver influito sia il suo avvocato difensore Robert Servatius sia, soprattutto, la disinvoltura con la quale aveva sovente mentito.
Eichmann non era così banale, alla luce del suo impegno per diventare un esperto di ebrei ed ebraismo, con un corredo di vaste letture, esperienze personali e un viaggio in Palestina, ossia, l’esatto contrario del classico burocrate.
Costui sarebbe stato considerato “d’intelligenza non troppo elevata, poco arguto..” ma non doveva essere tanto scadente visto che nella Conferenza di Wansee gli fu affidato il coordinamento di tutte le iniziative interministeriali volte a realizzare il genocidio degli ebrei, un compito che purtroppo assolse in modo perfetto, in contrasto con il ritratto che ne fa la Arendt,
Il quadro che emerge da “La verità del male..” è ancor più complesso perché, mentre emerge il ruolo fondamentale di Eichmann, si palesa anche un suo grave errore, consistente nel cercare troppo la ribalta anche dopo la guerra, senza considerare che in caso di sconfitta della Germania tale fama si sarebbe ritorta contro di lui. Non era un’eccezione. Quando Henry Kissinger, membro del servizio di controspionaggio americano, interrogava i militari tedeschi, per farli uscire allo scoperto diceva loro “certo, lei non contava nulla”, ottenendo una piccata risposta in cui costoro rivendicavano l’importanza del loro ruolo.
In favore della tesi della Arendt circa la non eccelsa intelligenza di Eichmann potremmo citare:
l’idea di farsi raggiungere in Argentina dalla famiglia, che continuò ad usare il cognome Eichmann mentre lui aveva adottato il falso nome di Ricardo Klement, errore che portò alla sua cattura; l’orgogliosa rivendicazione in Argentina del genocidio ebraico, che sbilanciò la propaganda negazionista; la concessione a Willem Sassen di una intervista oceanica, incompatibile con la volontà di nascondersi; l’affidamento a guerra da poco finita di certi valori ad un suo sottoposto ingiungendogli di averne cura perché qualcuno avrebbe potuto considerarli responsabili, come se la sua colpa potesse essere non il genocidio ma la malversazione; le ultime sue parole, con le quali assicurava che non avrebbe mai dimenticato Argentina, Austria e Germania, come se i morti avessero memoria.
Per contro, ed a sfavore della tesi della Arendt, si può rilevare che costei ha lasciato delle pagine indimenticabili, ma chela sua prosa trabocca anche di un certo personalismo, laddove privilegia l’originalità a scapito della ricerca, in quanto:
stabilire se il male sia o meno radicale (privo di radici) apparirebbe un esercizio meno proficuo di quanto appaia, perché lo sterminio non è certo delegato ai filosofi (come Heidegger) bensì a soggetti dotati di spirito pratico; la Arendt fa riferimento al danno provocato (a suo parere) agli ebrei dalle istituzioni ebraiche e dai sionisti; per le prime, la versione italiana potrebbe essere quella di Robert Katz, per le seconde il compito sembra essere stato ripreso, notoriamente, da mani meno nobili di quelle dell’autrice. Non si tratta di respingere qui siffatte critiche bensì di andare a ciò che consideriamo basilare, ossia, il rischio di rientrare nell’alveo della colpevolizzazione della vittima perdendo di vista l’intera realtà;
forse la Arendt avrebbe fatto bene a dedicare alla Conferenza di Evian del 1938 uno spazio maggiore di quello dedicato agli enti ebraici, perché le scarne righe che le dedica non possono essere facilmente comprese.
Sullo sfondo dell’Olocausto si agita soprattutto l’abilità dei nazisti nel nascondere le loro intenzioni perché altrimenti il loro compito sarebbe stato ben più arduo. Il contributo di Eichmann a questa orribile mistificazione non depone in favore della sua “banalità”.
Secondo il Merriam Webster “banality” significa: “something that lacks originality, freshness, or novelty”; per contro, come ben mise in luce Paul Johnson, gli ebrei si trovarono con un nemico col quale, a differenza del passato, non si poteva trattare. Eichmann faceva finta di trattare, certo che gli ebrei avrebbero fatto l’errore fatale di basarsi sull’esperienza. In questo senso, il boia non era banale, ma maledettamente originale. Potremmo ipotizzare che il lavoro della Stangneth, dacché implica una revisione della tesi della banalità del male, possa avere una ricaduta ben più significativa di quanto la stessa autrice si sia prefissa poiché, facendo perdere credibilità a siffatta tesi della Arendt, potrebbe forse incrinare il resto della sua nota impalcatura teorica. La Arendt aveva asserito che gli ideologi del XIX secolo avevano preteso di decifrare la natura umana, finendo però per rivelarsi i sofisti del mondo moderno; chissà se si fosse accorta che quella categoria non è un numero chiuso.
Emanuele Calò, giurista
(27 giugno 2017)