MEMORIA Bambini braccati dai nazisti

Mirella Serri / BAMBINI IN FUGA / Longanesi

Da un castello, imponente e austero, a una grande villa nelle campagne italiane. Potrebbe sembrare un itinerario tra attrazioni turistiche, in cerca del pittoresco. Ma di turistico, il viaggio descritto da Mirella Serri nel suo ultimo libro, Bambini in fuga, non ha proprio nulla. È un cammino lungo il bordo di un burrone. Un crepaccio ripido, di cui non si vede il fondo, guai a scivolare. Nel luglio 1941, quando comincia il racconto, l’Europa è un dirupo scosceso. Un gruppo di ragazzi ebrei cerca di farsi coraggio, si muove con circospezione, un passo dopo l’altro, per salvarsi. Il castello è in Slovenia, a pochi chilometri da Lubiana, e i profughi, o meglio gli orfani, giacché i loro genitori, deportati, sono già morti o stanno per morire, vengono dai quattro angoli del vecchio continente. «Da Berlino, Francoforte, Lipsia, Amburgo, Kiel, Vienna e Graz e da altre città più piccole della Germania e dell’Austria ma anche dall’Ucraina, Cecoslovacchia, Croazia, Ungheria e Polonia». Sono gli Stati Uniti d’Europa, quelli della tenebra, della guerra, della persecuzione. È facile entrare nel castello. Non è la fortezza immaginata da Kafka, a cui non si riesce nemmeno ad avvicinarsi. La porta è socchiusa, e l’anziana signora, che accoglie i fuggitivi «con un abito nero e un grembiule a righe», è buona e ben disposta. La magione è stata affittata dalla Delegazione per l’Assistenza agli Emigranti Ebrei (DELASEM), l’organizzazione, fondata nel 1939 dai vertici dell’Unione delle comunità israelitiche per assistere internati e perseguitati, e, se possibile, aiutarli a trasferirsi in Palestina, amministrata allora dagli inglesi. Nella primavera del 1941, la Slovenia è stata occupata dall’Italia, con la “guerra d’aprile”, scatenata contro la Jugoslavia dalle potenze dell’Asse. Ecco perché questa è, anche, una storia italiana, tessuta di fili diversi. Ci sono fili lucenti e altri oscuri, intrecciati tanto fitti gli uni agli altri che districarli è lavoro paziente, quasi impossibile. Gli storici devono essere pazienti per mestiere, e Serri cerca di sbrogliare, un nodo dopo l’altro, il percorso verso la salvezza del “suo” piccolo gruppo ebraico. I ragazzini sono guidati dal biondo Josef Indig, un ventitreenne nato al confine tra Croazia e Ungheria, entusiasta, duttile, proprio la persona che vorreste avere accanto sul bordo di un precipizio. Se nel castello s’entra facilmente, uscirne è quasi impossibile. Dove andare, come allontanarsi finalmente dall’Europa e raggiungere la Palestina? Di fronte all’azione capillare di arresti, deportazioni, assassini, condotta dai nazisti, abbandonare l’enorme area geografica sotto l’influsso, diretto o indiretto dei tedeschi, resta per gli ebrei l’unico scampo. Bambini in fuga spazia con abilità tra piccolo e grande, tra le peripezie dei giovani profughi e la scena maggiore della Storia, quella che si scrive con la maiuscola, ma che è poi fatta anch’essa di vite vissute, della somma di colpe e di meriti individuali. E proprio per dar voce alla dimensione personale, o forse personalistica, delle grandi dinamiche storiche, l’autrice individua una sorta di alter ego dei perseguitati, un “Orco d’Europa” che ne ostacola con cinica determinazione la fuga verso la salvezza. Il personaggio lo conosciamo da tempo, eppure se ne esce da più negativo che mai. È Amin al-Husseini, Gran Mufti di Gerusalemme, nazionalista arabo palestinese, attratto fatalmente da Hitler, e attivo sostenitore della politica nazista. È lui che, in odio al progetto sionista in Palestina, si oppone con ogni modo all’emigrazione ebraica. Fino al punto, ed è una delle affermazioni forti del libro (e scarsamente documentate), di essersi recato personalmente più volte in visita ad Auschwitz, a sostegno dello sterminio. È una ricostruzione che molto deve, credo, a lcon of Evil, un testo controverso di David G. Dalin e John F. Rothmann, uscito qualche anno fa, e tradotto anche in italiano (Lindau 2009). Che Amin al-Husseini sia stato un violento antisemita è fuor di dubbio, così come è indiscutibile il suo colpevole sostegno al nazismo. I panni di “Orco d’Europa” gli stanno però forse un po’ troppo larghi, e rischia d’inciamparci. Quanto alla storia con la minuscola, che ci appassiona, i ragazzi approdano, dal castello sloveno, a Villa Emma, a Nonantola, presso Modena. Da G, protetti e nascosti, con gran generosità, dalla gente del luogo, riescono a guadagnare, nell’ottobre 1943, la Svizzera. È la salvezza. Il baratro non riuscirà più a inghiottirli.

Giulio Busi, Il Sole 24 Ore Domenica, 25 giugno 2017