Parole senza voce
C’è come una sorta di vocio universale, ininterrotto; un accavallarsi di parole, a tratti stridule, altre volte più dolci, comunque sempre ridondanti e sovrabbondanti. Su ogni cosa ci si sente oramai chiamati in causa. Per giudicare, magari concorrendo a pregiudicare. Una sorta di labile e tremula democrazia della voce che, per il fatto stesso di potersi manifestare, si trasforma da subito in un “mucchio selvaggio”. Così nel web, così anche nella vita “reale”. Come se si trattasse di una specie di cornice a modo suo rassicurante, c’è poi sempre qualcuno che ha da dirti che i fatti del mondo sono il prodotto di una sottaciuta congiura, di una silenziosa ma mefistofelica alleanza, del connubio tra interessi inconfessabili. Per esempio, le feroci schermaglie sui vaccini – delle quali, francamente, non se ne sentiva proprio il bisogno, rivelando la loro natura di polemiche battaglie tra fronti contrapposti, con corredo di invettive, scomuniche e atteggiamenti sempre più spesso connotati da rimandi a radicate superstizioni – invece che costituire una premessa, sia pure animosa, per una discussione sui rapporti tra scienza, economia e interessi corporati, si sono trasformate in una sorta di esercizio di falsa denuncia dei cosiddetti «poteri forti». Dacché invece che identificare e denunciare per davvero un problema, il loro trasformarsi in un parapiglia tra ultras annebbia ancora di più l’orizzonte, rendendo maggiormente opachi i conflitti di interesse che pure accompagnano le scelte collettive nelle nostre società. Perché questo meccanismo si ripete oramai con una frequenza insopportabile? Quanto incide la «dinamica del complotto», la diabolizzazione dei fatti del mondo, come falsa comprensione della complessità dell’esistenza e delle discontinuità che ne fanno da corredo? Alla base del bisogno di darsi una spiegazione consolatoria, che racchiuda in sé lo scibile umano ma che, soprattutto, offra un’assoluta coerenza che la realtà non riesce altrimenti a garantire, vi è il senso di spaesamento, che si fa a volte spiazzamento, dinanzi all’indecifrabilità della vita. Tanto più quando questa assume i caratteri della imprevedibilità o pare soverchiarci con le sue forze, senza che per parte nostra si possa porre rimedio alle sue tante storture. Quando la storia “precipita” sulle persone, e quando queste vivono in una condizione che interpretano come intollerabile, allora la ricerca di meccanismi compensatori si fa diretta ed immediata. Quasi si trattasse di riti esorcizzanti, per “buttare fuori” ciò che non ha volto, non ha nome ma è vissuto come una minaccia intollerabile. Una condizione, quest’ultima, che non è prerogativa solo dei momenti di crisi ma che senz’altro trova in essi la sua massima enfatizzazione. Poiché dietro questo affannoso tentativo di colmare il vuoto c’è il bisogno di sentirsi risarciti di qualcosa che è ritenuto come ingiustamente sottratto. Il capro espiatorio, quindi, ne costituisce l’oggetto compensatorio, il filo rosso del significato recuperato che permette, a chi ne fa ricorso, di sentirsi finalmente agente attivo – e quindi non solo passivo destinatario – contro qualcosa di altrimenti più gigantesco di lui (e come tale minaccioso, destinato cioè a distruggerlo). L’individuo o il gruppo che si rifanno all’idea del complotto non perdono mai il rapporto con la realtà. Semmai lo rafforzano attraverso una loro interpretazione, ispirata ad un meccanismo interpretativo dotato di un’intima coerenza. Il «delirio metafisico collettivo» (Dieter Groh) si basa su di un processo di riduzione e di governo di ciò che ci risulta altrimenti incomprensibile attraverso il ricorso alla credenza senza riscontro. Questo meccanismo è funzionale a rinsaldare i vincoli comunitari, ad alleviare l’ansia attraverso l’identificazione dell’ignoto con ciò che si presume essere già noto (secondo un criterio che si rifà allo scimmiottamento di alcuni aspetti dell’agire scientifico), alla riappropriazione dell’orizzonte esistenziale attraverso una teoria interpretativa coerente che trasmuta, passo dopo passo, in azione. La teoria del complotto, come universalità che intende spiegare le meccaniche della storia generale e le dinamiche delle singole storie personali, non costituisce quindi una sbavatura irrazionale rispetto alla realtà quotidiana. Ne è semmai un’interpretazione conchiusa, ossia in apparenza razionalista (ma, nel medesimo tempo, irragionevole poiché indisponibile a qualsiasi controprova, a qualsivoglia verifica e quindi, nel suo intimo, totalitaria), che si alimenta della scarsa o nulla comprensibilità di molti fatti del presente per sostituirvi una linearità rassicurante. Ciò che non si capisce, quindi, è tale non perché prodotto della complessità, della stratificazione, della pluralità, dell’intreccio degli elementi che ne compongono la sua manifestazione, bensì della volontà, da parte di certuni, di impedire ai più di comprendere cosa stia accadendo “per davvero”, in tale modo ledendone gli interessi elementari, diretti, immediati. In realtà, qualsiasi sostenitore del complotto fa appello soprattutto a questo secondo fattore (l’intenzione di alcuni, tra di loro coalizzati, di offendere i diritti alla conoscenza dei più) per accreditare e convalidare il fondamento della costruzione ideologica sottointesa alla sua interpretazione del mondo. La mistica delle denuncia dell’occultamento è, d’altro canto, il nocciolo del complottismo. Recuperata integralmente dal negazionismo, che del primo ne è un po’ la manifestazione ultimativa, quella meglio strutturata sul piano intellettuale. L’occultamento, affermano i complottisti, si dà in un duplice senso: per l’appunto, con il negare ai più il diritto alla conoscenza “vera”, autentica del fatti; nel costruire una realtà fittizia, basata sulla deliberata omissione, manipolazione, falsificazione. Il tasto sul quale si pigia è sempre il medesimo: fornire l’impressione che sia in corso un dibattito tra chi sostiene e chi rifiuta l’idea del complotto, in modo da accreditare le tesi dei primi e nobilitarle agli occhi degli osservatori più o meno disattenti. L’ossessione per la “libertà di espressione” si fa in tale modo assoluta. Qualsiasi risposta negativa, o avversativa, nei confronti dei teoremi complottisti viene tradotta, a questo punto della “discussione”, in un deliberato attacco alla possibilità di esprimere posizioni “anticonformiste”. Che per il fatto stesso di essere contro qualcosa o qualcuno avrebbero già in sé un fondamento. Poiché “chi si oppone”, secondo questa logica, è perché ha ragione. Segnatamente, dovendo aprire un parentesi storica, questo atteggiamento trova proprio nella destra radicale, dalla fase postbellica in poi, il suo nocciolo più robusto. Per poi estendersi verso campi e orizzonti altrimenti impensati. L’auto-accreditamento nella qualità di vittime del «pensiero unico» (laddove l’equazione è tra un’ipotetica uniformità ideologica e di intenti, quella espressa dai vincitori del Secondo conflitto mondiale, e la presunta mancanza di libertà che vigerebbe nelle democrazie) è parte integrante del cammino di ricostruzione di una verginità politica al quale, dal 1945 in poi, i neonazisti e i neofascisti europei hanno fatto ricorso per rigenerarsi come soggetto politico e culturale. Coltivando, o fingendo di coltivare, un diritto da offrire a tutti, nel mentre – invece – si dedicavano a costruire uno spazio di agibilità esclusivamente proprio. In realtà, a conti fatti, qualsivoglia pensiero complottista rimanda ad una visione patologica delle cose. Varrà allora ancora la pena di intendersi su tale passaggio. Assai meno scontato di quanto non sembri a prima vista. La riduzione del processo storico a complotto assume infatti la natura del lucido delirio. Come tale, investe la personalità stessa di chi se ne fa sostenitore. Nel medesimo individuo possono quindi coesistere atteggiamenti deliranti e comportamenti socialmente irreprensibili. Non di meno, la personalità complottista rivela frequentemente un’ipertrofia della capacità di motivazione logica del delirio e, contestualmente, la totale incapacità di sottoporre a una critica ragionevolmente fondata le stesse premesse deliranti di tale costruzione pseudologica. Non di meno, la dialettica tra occulto ed evidente si definisce come forma di razionalizzazione capovolta: il primo spiega integralmente il secondo, adottando una procedura che è anche quella del metodo scientifico d’indagine (dall’invisibile al visibile, e viceversa) ma connotandola secondo una discriminante moralistica: ciò che non è visibile è tale non perché non percepibile dai sensi ma in quanto occultato deliberatamente. Il teorema complottistico in genere si alimenta nel corso del tempo, seguendo un percorso accrescitivo, che si radicalizza cumulando presunte “prove” e riscontri della sua fondatezza. Fondamentale, a tale riguardo, è la coesistenza di due premesse: la preesistenza di credenze diffuse, ancorché non organizzate in una teoria sistematica ma comunque utilizzabili a tal fine, nonché l’intervento di un’autorità in grado di legittimare tali convincimenti. Anche da ciò deriva quindi il forte nesso che si istituisce tra fantasia e azione: l’azione di contrasto al complotto in atto, per chi crede che le vicende umane siano da interpretarsi in tale chiave, richiede un intervento diretto; la sua assenza rischia altrimenti di diventare il suggello dell’inanità. Così è stato nel caso dell’atteggiamento antisemitico così potrebbe essere per altri, similari orizzonti di delirio d’ora innanzi. Di fatto, quindi, l’apocalitticismo che si accompagna alla visione complottista è qualcosa di più di una bizzarria dello spirito umano, come saremmo invece tentati di credere. Una condizione, quest’ultima, che sfida qualsiasi pedagogia civile, scavalcandola e sostituendosi ad essa, per costituire un discorso falsamente chiarificatore sulle “colpe” che certuni avrebbero nei confronti dell’umanità. Una tentazione molto forte, da non sottovalutare.
Claudio Vercelli
(2 luglio 2017)