Ius soli, una prospettiva ebraica
Qualcuno si sarà chiesto quale sia l’opinione degli ebrei e dell’ebraismo nella accesa discussione politica sul diritto di cittadinanza in base allo ius soli, che stabilisce che si è cittadini del luogo (il suolo) dove si nasce, per automatico diritto di nascita.
Sappiamo benissimo che gli ebrei e l’ebraismo hanno molte opinioni differenti, soprattutto quando ci sono implicazioni politiche, ma la conoscenza, anche in una breve rassegna, dei principi fissati in merito a questo tema dalla nostra tradizione può essere molto utile per qualsiasi posizione che voglia definirsi ebraica. Effettivamente questi problemi sono affrontati e discussi ampiamente nelle nostre fonti, e va detto subito che il diritto ebraico non parla esattamente di cittadinanza, non riconosce lo ius soli e ha una visione molto particolare del cosiddetto ius sanguinis. Spieghiamo più in dettaglio.
La cittadinanza è definita dalla Enciclopedia Italiana come “condizione di appartenenza di un individuo a uno Stato, con i diritti e i doveri che tale relazione comporta”. Ora la halakhà, anche quella prediasporica, non si riferisce alla appartenenza allo Stato ma alla appartenenza alla comunità, al qahal, al qehal Israel, o ‘am Israel, con tutto ciò che ne deriva in doveri e diritti, compreso il diritto-dovere di risiedere in terra d’Israele. Inoltre la halakhà discute il diritto di residenza nella terra d’Israele di chi non appartiene al qehàl Israele, ma vuole risiedervi come “straniero”, definendo il concetto di “gher”, e distinguendone due modalità: il gher tzedeq è la persona che non è nata ebrea e si impegna ad osservare tutte le regole dell’ebraismo e quindi diventa parte di Israele; il gher toshav (residente) è la persona che si impegna a rispettare i sette precetti noachidi e grazie a questo impegno ha il diritto di risiedere in terra d’Israele. È ben evidente che non si parla di ius soli, ma di appartenenza e residenza condizionate dall’impegno a rispettare determinate regole. Quanto allo ius sanguinis, che è la cittadinanza che si consegue per discendenza biologica da un cittadino, una specificità ebraica è che non si parla mai di sangue, per una precisa scelta culturale e simbolica; i rapporti di parentela sono invece indicati con le espressioni “ossa e carne” (Gen. 29:14).
L’altra specificità ebraica è che per l’appartenenza a Israele non è da qualsiasi parentela o genitore che si è ebrei ma solo per linea materna, mentre per l’appartenenza agli altri popoli si segue il padre. A confronto con le fonti si vede quindi che il dibattito politico e giuridico attuale tocca temi sensibili alla tradizione ebraica ma i riferimenti ebraici sono assolutamente particolari e non sovrapponibili.
Trattandosi di un problema che non è solo giuridico ma che ha anche notevoli implicazioni umanitarie, storiche e politiche, questa rapidissima rassegna non può tacere altri dati che provengono dall’ebraismo: il dovere biblico tante volte ribadito di tutelare e proteggere il gher, “perché siete stati gherim in terra d’Egitto” (Es. 23:9); l’obbligo di assistere con pane ed acqua chi attraversa il tuo territorio, e il marchio di infamia che si mette sul popolo che non rispetta questo obbligo (Deut. 23:5); la nostra storia infinita e dolorosa di continue espulsioni e migrazioni che ci pone inevitabilmente dalla parte dei migranti. Ma con molto realismo bisogna pur riflettere su quale sia stato il modello ebraico di integrazione nelle tante società dove si è trovato nella storia, a confronto con quello che l’Europa, e l’Italia in particolare, sono in grado di offrire oggi alle masse in arrivo; se si tratta di emarginazione e sfruttamento, come è spesso l’accoglienza che si offre, si è ben lontani dal concetto ebraico di tzedaqà. Inoltre la tradizione e la storia hanno sollevato il problema dell’equilibrio delle popolazioni; già in Deut. 28:43 si minaccia, nella serie di ammonizioni a Israele se non sarà fedele ai suoi doveri, che “il gher che sta in mezzo a te salirà su di te in alto in alto (ma’ala ma’ala) e tu scenderai in basso in basso”. Notevole il fatto che questa strana espressione “in alto in alto” che accompagna l’angosciante profezia, usando la sua traduzione in aramaico (le’ela le’ela) sia stata rovesciata ed estrapolata per essere usata tutti i giorni nella preghiera del qaddìsh. Ora è il Signore che sta “in alto in alto” al disopra di ogni benedizione ed è per noi oggetto di lode e fonte di benedizione. Ma non si dovrebbe dimenticare che invece qualcuno, anzi qualche moltitudine, potrebbe salire sulle nostre teste. Insomma, rifacendosi alle fonti: quanto al “gher” nessun automatismo, ma ogni conferimento di diritti discende dall’accettazione di doveri; quanto a noi, non dobbiamo rinunciare ai nostri principi umanitari e alla nostra storia, ma neppure a una visione realistica dell’accoglienza e delle conseguenze per il nostro futuro che queste migrazioni epocali potranno avere.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
(3 luglio 2017)