La testa ben fatta
La demonizzazione dell’avversario attraverso la fisiognomica è un procedimento che serve ad attribuirgli qualità negative al medesimo tempi inconfutabili e immodificabili. A volte si ammanta di scientismo, ossia della parvenza di un qualche riscontro scientifico, benché non abbia nulla a che fare con la scienza in quanto tale. Se uno è fatto in un certo “modo”, ossia con una determinata anatomia, immediatamente identificabile, e se da quel suo modo di essere dipendono determinati attributi morali o certe qualità di comportamento, allora non c’è nulla che possa mutare i secondi poiché questi derivano dalla sua identità psico-fisica, che è data una volta per sempre. Tutto quello che dice (e fa) viene quindi passato attraverso questo filtro che stritola ogni ulteriore ragionamento. Lo sfottimento dettato dall’aspetto fisico è peraltro una prassi abituale nei discorsi di senso comune. La denigrazione non per quel che si dice o si fa ma per ciò che gli altri ritengono un individuo sia in virtù della sua fisionomia fisica, è antica prassi. Non per questo risulta meno sgradevole e reprensibile. Tuttavia sta dentro certe dinamiche di relazione alle quali si può cercare di porre riparo. Peraltro è difficile dire quanti, almeno una volta nella loro vita, siano riusciti ad esentarsi dalla tentazione di ricorrervi. Poiché coniuga ilarità a offesa, sarcasmo a stigmatizzazione, liberando dall’obbligo di argomentare nel merito delle idee altrui. Assume invece una caratura diversa, ben più pericolosa, se si lega al piano politico. In quanto correda la delegittimazione di una posizione che riguarda non una singola persona ma gli interessi della collettività, a tratti somatici, visibili o impliciti, di colui (o coloro) che la rappresenta. È come se si dicesse: “la pensi così e manifesti certe idee poiché sei fatto in un certo modo e quel tuo essere fatto in quel modo costituisce il tuo destino”. L'”essere fatto in un certo modo” rimanda a tratti manifesti (o percepibili) del corpo dietro (e dentro) ai quali si giocherebbe la ragione stessa di una data linea di pensiero. Se un tale procedimento è rivolto contro una persona, rilevando aspetti della sua corporeità che rimandano ad una appartenenza di gruppo, il tutto per diminuirne o addirittura delegittimarne le argomentazioni, allora si è nel paradigma della costruzione razzista. Poiché l’individuo non è valutato come singolo ma in quanto parte di una sequenza seriale. Le sue stesse azioni sarebbero il risultato di questa condizione, che letteralmente lo spossessa della sua individualità, essendo egli semmai la mera manifestazione soggettiva di una logica di gruppo preordinata, i cui fondamenti stanno nella costituzione fisica che, a sua volta, esprime qualità o disvalori di ordine morale. Il rimando alla circoncisione, nel pensiero razzista, è il richiamo ad un patto di fedeltà tra omologhi che rivelerebbe la natura particolarista (ovvero di gruppo, in altre parole “massonica”) e complottista di ciò che viene altrimenti spacciato come interesse generale. E di chi si adopera in tal senso. Quello che fa riflettere è il continuo riemergere, come se fossero dei segnali involontari e in quanto tali veraci, ovvero tristemente autentici, di questi elementi nel pensiero non solo di senso comune ma anche di chi dovrebbe invece avere gli strumenti per non farsene coinvolgere. Così come il rimandare al fatto, una volta generata un’ondata di indignazione pubblica per le proprie parole (ma anche un ampio seguito di assensi e condivisioni), che il proprio dire andrebbe inteso come un omaggio alla libertà di espressione di un pensiero diffuso: «È fin troppo ovvio che nella mia battuta – certamente, e volutamente, indigesta ai sacerdoti del politicamente corretto – non vi è e non vi può essere alcuna forma né volontà di antisemitismo». Ed ancora: «Ho piuttosto inteso, con un linguaggio “forte” come – purtroppo o per fortuna – si usa sui social, ed usando una sua fotografia, dargli del “testa di c…”. Alzi la mano chi non l’ha mai pensato di nessuno. Ed io lo penso di Fiano. Questo, e nessun altro, il mio intendimento». Un atto di autenticità, in altre parole. Del pari a quanto il fascismo storico andava rivendicando di sé, nel momento delle violenze non solo verbali ma anche fisiche. Con il ricorso alla goliardia, tra altre cose, intesa e declinata come involucro irridente dei valori “borghesi e liberali” e quindi strumento legittimante della tracotanza. Goliardia come liberazione, per l’appunto, dai filtri delle relazioni sociali e ritorno alla vera cifra dei rapporti interpersonali, la vittoria dei più forti a scapito dei soccombenti. Che non dovevano solo essere subordinati ma, nell’eventualità, eliminati. Era una dichiarazione “antropologica”, qualcosa che voleva marcare con le parole la vera, autentica radice del fascismo, in linea con quella idea di «trincerocrazia» (il termine fu usato sul “il Popolo d’Italia”) dove si esaltavano soprattutto tre elementi: la fusione degli individui in un unico fascio combattente; la “selezione naturale” dei capi attraverso il combattimento (un falso storico, peraltro, nel caso di molti ras fascisti); l’anti-intellettualismo come radice della visione delle cose e degli ordinamenti umani. Così allora ma anche nell’oggi, per un passato che non è trascorso e che si ripropone attraverso i “motti di spirito” che hanno il peso del manganello mediatico. Dopo di che, è non meno vero che la classe politica è sempre lo specchio del Paese che l’ha eletta. Il che a volte fa venire la pelle d’oca.
Claudio Vercelli
(16 luglio 2017)