Appelli

Emanuele CalòDi recente è stato diffuso un documento nel quale si informa che: “abbiamo risposto con favore all’appello agli ebrei del mondo promosso da più di 500 israeliani, figure eminenti nel mondo intellettuale, accademico e imprenditoriale, ex membri della Knesset e dei governi di Israele”. Poiché io sono, incontestabilmente, uno degli ebrei del mondo, godo del privilegio (purtroppo non esclusivo) di essere un soggetto al quale si rivolgono ben cinquecento figure eminenti. Finora ho passato il tempo a chiacchierare col barbiere del paese e col personale del supermercato, traendo l’impressione che costoro mi trattassero con grande riguardo per la bravura con cui fingo di saper leggere e scrivere così come per la mia incrollabile fede nella più eccelsa squadra di calcio che mente umana abbia potuto concepire. Essendo persuaso, tuttavia, che si tratti di una fiducia a termine, questo appello di figure eminenti, in quanto è rivolto, ancorché pro quota, anche alla mia persona, è stato per me una boccata d’aria, la rete del pareggio che ti porta ai supplementari o la mezza promessa della compagna di scuola che ti lascia qualche speranza.
È da ipotizzare che il richiamo alle opinioni di soggetti ritenuti di prestigio (vedi: E. Calò, Non lo dico io, Moked, 21 marzo 2017) non contemplasse la menzione, per dire, dei droghieri, ciabattini, parcheggiatori abusivi, netturbini e così via. Tuttavia, i soggetti di cui sopra hanno pieni diritti politici e possono eleggere i loro rappresentanti al Parlamento senza che il loro voto valga meno di quello delle 500 figure eminenti nel mondo intellettuale, accademico e imprenditoriale, ex membri della Knesset e dei governi di Israele. Nei riguardi dei cinquecento, inviterei a rileggere Isaiah Berlin, laddove richiama Immanuel Kant in tema di paternalismo oppure quando descrive le idee di Jean-Jacques Rousseau.
Ora, se l’appello lo avessero sottoscritto i suddetti droghieri, ciabattini, parcheggiatori abusivi, netturbini e così via, sarebbe stato un danno per la democrazia? Direi di no, perché anche i personaggi eminenti possono sbagliare, e la storia insegna che, dopo la seriore discriminazione del censo, della cultura e del genere, si è addivenuti alla decisione di far votare tutti, ricchi e poveri, uomini e donne, dotti e incolti. Perché dovremmo essere particolarmente colpiti dalle personalità eminenti se non sappiamo chi attribuisca loro cotanta eminenza; forse delle personalità ancor più eminenti?
Poiché si tratta di raggiungere un’intesa duratura, possiamo considerare che non servano cinquecento personalità bensì un trattato di pace con la volontà delle due parti di sottoscriverlo; forse serve anche qualcuno che sappia contare fino a due, perché alla luce del tenace unilateralismo cui si assiste, nulla è scontato.

Emanuele Calò, giurista

(19 luglio 2017)