Bartali il Giusto, confusione sul web
Le ragioni della ricerca storica
e la smania di visibilità
“Il grande ciclista italiano Gino Bartali salvò davvero degli ebrei durante la Shoah”? Se lo chiede l’ex direttore della Fondazione Cdec Michele Sarfatti, in un testo apparso in inglese sulla testata web The Tablet.
Un intervento destinato a far discutere e che sembra voler gettare un’ombra sui lavori della commissione dei Giusti dello Yad Vashem, che ha riconosciuto il ciclista come tale nel 2013 e che ha tra i suoi più autorevoli componenti il demografo Sergio Della Pergola.
Il testo lancia l’attacco a Bartali e alla Commissione del prestigioso istituto israeliano prendendo praticamente come unico riferimento un libretto del 1978, opera del giornalista Alexander Ramati, che racconta la Assisi “underground”: e cioè la rete di assistenza clandestina che fece del Comune umbro un luogo di salvezza per numerosi perseguitati, in particolare ebrei, con il coinvolgimento tra gli altri proprio di Bartali. Come noto a chi si è addentrato in questa vicenda in modo non superficiale, la testimonianza più fragile e meno attendibile su quei giorni. Dimentica però che da allora molte cose si siano mosse, diversi cassetti si siano aperti, alcuni testimoni rimasti nell’ombra siano usciti allo scoperto in modo inconfutabile. Ma di questo l’articolo non fa menzione, limitandosi ad attaccare il facilmente attaccabile Ramati e trascurando la significativa mole di materiale su Ginettaccio che è stato possibile portare all’attenzione della più autorevole e credibile istituzione al mondo ad occuparsi oggi di Shoah.
Manca ad esempio ogni riferimento alle numerose vicende inedite ricostruite dal giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche negli scorsi anni. Vicende che, da scoop giornalistici che hanno fatto parlare i quotidiani di mezzo mondo, sono presto diventate testimonianze concrete, pagine vive di Memoria consegnate ai funzionari del Memoriale e poi approfondite dai diversi team di lavoro incaricati di sgombrare scientificamente il campo da ogni possibile dubbio e incongruenza.
Su tutti la vicenda di Giorgio Goldenberg, un ebreo fiumano che a Pagine Ebraiche (dicembre 2010) ha raccontato di essere stato nascosto dal campione di Ponte a Ema in un appartamento di sua proprietà a Firenze in compagnia della sorellina, del cugino e dei genitori. “Se sono vivo lo devo a Bartali” ci aveva raccontato Goldenberg, da poco scomparso, che allo Yad Vashem si è presentato poche settimane dopo sia con una deposizione scritta che con diverse prove documentali di questa pagina di coraggio.
Era stato proprio il giornale dell’ebraismo italiano, nella primavera del 2010, a lanciare una campagna di sensibilizzazione e nuova documentazione sul Bartali meno conosciuto. Mancavano allora prove certe, inoppugnabili, qualcosa che mettesse d’accordo tutti i membri della Commissioni.
Il lavoro giornalistico della redazione, supportato tra gli altri dall’attività di Sara Funaro, psicologa e oggi assessore al Comune di Firenze, ha poi lasciato il testimone a quello portato avanti dagli storici e dai membri della Commissione.
E così, grazie anche a questo impegno, qualche lacuna è stata colmata. Checché ne dicano oggi gli accademici ansiosi di ottenere visibilità anche al costo di ricorrere alla faciloneria e alla facile emotività propagata dal sistema dell’informazione e dei social network.
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Della Pergola: “Operazione diffamatoria”
È doloroso che un ricercatore eccellente e stimato come Michele Sarfatti si sia prestato a questa trama di cui non comprendo le fondamenta e la logica.
La commissione per i Giusti delle Nazioni di cui faccio parte (anche se non ho partecipato al voto sul fascicolo Bartali perché discusso in una sotto-commissione diversa dalla mia) ha basato il suo giudizio su un’ampia massa di testimonianze orali e scritte la cui attendibilità è fuori di ogni dubbio. Di Bartali sono state esaminate in particolare due azioni: il suo ruolo di messaggero di carte importanti per la salvezza di ebrei, che venivano consegnate fra gli altri a Natan Cassuto, allora Rabbino di Firenze e legato alla rete del Cardinale Dalla Costa; e l’avere messo un appartamento di sua proprietà a disposizione di ebrei.
Questi sono fatti comprovati con certezza. L’azione diffamatoria in corso è indegna di chi voglia occuparsi seriamente delle vicende del periodo bellico e della Shoah.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
(20 luglio 2017)