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Dal punto di vista di chi vive in Israele la discussione su “ius soli – ius sanguinis” è molto complicata e tocca i nervi più sensibili dell’essenza dello stato e della società. Di fatto, una minoranza di circa un terzo (un tempo la maggioranza assoluta) della popolazione ebraica israeliana gode della cittadinanza pur essendo immigrata dall’estero. Esiste invece, anche se può essere fastidioso ricordarlo, una certa minoranza della popolazione araba che pur essendo nativa del paese (definito in questo caso Palestina), si è trovata a doverlo abbandonare e oggi non gode e non potrà godere della cittadinanza. Va poi tenuto conto che il numero dei discendenti delle persone iniziali – native o immigrate – può divenire e di fatto è di molte volte superiore. In Israele la Legge del Ritorno opera come una versione del principio dello ius sanguinis, sia pure modulato da varie distinzioni dettate in parte dal diritto ebraico, in parte dalla legge civile israeliana. Per gli immigrati non soggetti alla Legge del Ritorno non si applica in principio né lo ius sanguinis né lo ius soli. I tribunali lavorano a tempo pieno per risolvere singoli casi di richieste di cittadinanza che peraltro non creano precedenti di ampia portata. Questa situazione anomala e apparentemente agli antipodi del dibattito liberale contemporaneo in occidente ha una chiara spiegazione: l’esistenza di un conflitto irrisolto fra Israele e il mondo arabo e islamico. È un conflitto politico, religioso, di civiltà, ma in questo caso soprattutto esistenziale. Le migrazioni internazionali, così come le altre variabili demografiche, possono determinare in modo decisivo gli equilibri sociali e identitari all’interno del paese. La logica delle posizioni etiche e delle decisioni giuridiche sulla questione della cittadinanza in una situazione di conflitto e di non-conflitto sembra dunque essere alquanto diversa. Per questo è molto difficile se non impossibile confrontare il caso di Israele con quello dell’Italia e degli altri paesi dell’Unione Europea. A meno che non ci si voglia porre la domanda se anche in Italia e in Europa esista o meno un conflitto, politico, religioso, culturale, o se vogliamo esistenziale. Questa era stata l’ipotesi proposta dallo studioso americano Sam Huntington, che però è stata rigettata dalla maggior parte dei pensatori occidentali. Credo però sia per lo meno onesto riflettere a questa domanda e cercare di darvi una risposta frutto di sincera meditazione – lontano da affannate e populistiche improvvisazioni
e interdizioni. La sola alternativa possibile all’ipotesi del conflitto di civiltà è andare avanti perseguendo l’ideale di un genere umano uno, indivisibile, e fruente di parità di diritti, se non su un suolo almeno su un altro suolo.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

(27 luglio 2017)