…Tishà Be Av

Tishà Be Av è tragedia ed esilio. È il memento del disastro e l’inizio dell’errare. Un popolo deportato per strapparlo a una terra a cui non ha mai rinunciato a ritornare. E ora che c’è tornato l’unico modo possibile per separarlo da quella terra è affermare che quella non ha nulla a che vedere con lui, e lui non ha nulla a che spartire con quella terra. Il Tempio di Salomone non è il Tempio di Salomone, e non è mai stato il centro della spiritualità ebraica. Anzi, all’inizio fu Al-Aqsa, la moschea sorta dal nulla sul nulla. Ironia della sorte. O piuttosto, ironia della politica e dei suoi cinici stratagemmi.
E pensare che gli ebrei, per uscire non troppo malconci dalla storia, hanno persino cercato di unificare in Tishà Be Av tragedie diverse – la distruzione del primo Tempio, quella del secondo Tempio, la sconfitta di Bar Kochba, la cacciata dalla Spagna. Ma la storia, con il popolo ebraico, ha sempre giocato al gatto e al topo. Hanno un bel dire gli ottimisti degli ultimi tempi, quelli a cui non piacciono gli ebrei ‘del lamento’.
Ma l’ebreo non è mai solo. Con lui c’è Dio, dice qualcuno. Qualcun altro dice che con lui c’è l’umorismo, ossia, con le parole luminose di Romain Gary, “quello strumento abile e del tutto appagante che riesce a disarmare il reale nel momento in cui ti sta per cadere addosso”. In una sola riga, Bergson, Freud, Jankélévitch ed epigoni vari.

Dario Calimani, Università Ca’ Foscari Venezia

(1 Agosto 2017)