Charlottesville, voci ebraiche
per denunciare l’adunata nazi
Un pomeriggio al parco a Charlottesville, la città della Virginia in cui i razzisti hanno sfilato e ucciso, insieme a un centinaio di suprematisti bianchi che lanciavano cori minacciosi contro ebrei, afroamericani, la stampa e tutte le categorie individuate come “nemiche”.
Il giornalista Nathan Guttman, a capo dell’ufficio di Washington del giornale ebraico statunitense The Forward, ha raccontato l’agghiacciante incontro in un articolo dal titolo “What a Jewish Journalist Saw in Charlottesville”. Una testimonianza preziosa per riflettere da una prospettiva ebraica sull’America più nera, tra i nostalgici del nazismo, della segregazione razziale, del Ku Klux Klan, mentre ancora infuriano le polemiche (anche da parte ebraica) per la condanna tardiva del presidente Trump.
Nemico numero uno dei suprematisti, racconta Guttman, il sindaco ebreo di Charlottesville Michael Signer, “colpevole” della rimozione della statua del generale eroe dei separatisti nella Guerra civile americana. “Jew, Jew, Jew, Jew” grida la folla di fanatici, guidata dal leader estremista Richard Spencer (uno degli esponenti più noti del movimento Alt-Right, particolarmente minaccioso). Guttman racconta inoltre l’incontro con David Duke, già a capo del Ku Klux Klan e noto cospiratore antisemita e negazionista della Shoah. Anche per lui un’ovazione. “Gli americani di origine europea affrontano una grande discriminazione e subiscono una pulizia etnica nella loro stessa nazione. Il coraggio dimostrato oggi a Charlottesville – le parole di Duke, al gruppo raccolto al McIntyre Park – è il primo passo per realizzare il piano di riprenderci gli Stati Uniti”. Duke, nel suo intervento, ha confermato il sostegno degli estremisti americani a Trump.
A seguire il corteo anche la Jewish Telegraphic Agency, attraverso il proprio corrispondente da Washington Ron Kampeas.
Tra i diversi episodi inquietanti di giornata Kampeas racconta l’incontro, al Dogwood Vietnam Memorial, con un uomo che l’ha inseguito per raccontargli che “la Shoah è una bugia, gli ebrei sono crudeli e che il dna è fondamentale per definire la purezza”. Quindi, all’Emancipation Park, il coro di un gruppo di ragazzini che l’ha circondato per gridargli: “Buttate giù il muro in Israele, un confine aperto per tutti!”. Nelle loro minacce, spiega Kampeas, c’è il riferimento a una teoria che ha preso piede nell’estrema destra americana: gli ebrei vorrebbero confini aperti negli Stati Uniti per portarli alla rovina e allo stesso tempo si starebbero industriando per preservare la purezza di Israele.
(14 agosto 2017)