Di gesso e di sale
Mentre c’è chi abbatte vite umane, investendole intenzionalmente con un veicolo a motore, ci sono quanti pensano che il passato possa essere ricostruito a propria immagine e somiglianza (quale immagine e a somiglianza di chi e cosa?) buttando giù i monumenti e le costruzioni del passato. La polemica ha il sapore di stantio, sia nella forma che nei contenuti. Ed è probabile che passata l’estate, stagione ritornata tragica per il ripetersi di un terrorismo con il quale dovremo convivere a lungo, si sgonfi da sé. Rimane il fatto che la furia iconoclasta – questa volta nel senso letterale del termine, trattandosi di una distruzione di immagini e raffigurazioni simboliche alle quali è conferito un qualche valore che trascende il passato – pervade trasversalmente un nutrito gruppo di persone, anche da sponde (politiche, culturali, ideologiche) opposte. Così quindi in Ucraina, da dove viene annunciato che la rimozione delle statue di Lenin è in via di ultimazione; negli Stati Uniti, attraversati da una polemica per l’abbattimento dei monumenti che rimandano ai trascorsi confederati e sudisti; più modestamente – è il caso di dirlo – in Italia, tra affermazioni e contro-affermazioni rispetto al passato fascista, ai suoi simboli e alla traccia architettonica (ma anche urbanistica, la qual cosa è assai meno facilmente modificabile di quanto non lo sia nel caso precedente) che il regime mussoliniano ha lasciato in eredità. Qualche rimando al merito del problema, forse, necessiterebbe.
Fermo restando che il “dibattito” nel nostro Paese ha assunto da subito una piegatura un po’ surreale, essendosi animato di sproloqui e false notizie. Non risulta che ci siano ruspe in azione, mentre invece il fuoco della polemica continua ad essere alimentato da alcune testate giornalistiche e dalla grancassa del Social network. Detto questo, il primo elemento da considerare riguarda il tempo in cui ci si adopera per fare le cose. Se l’intenzione che si accompagna al divellere una statua o quant’altro, che assurgono a simbolo, ha un senso preciso qualora si manifesti nel mentre è in corso una transizione politica (ad esempio il 1943 o il 1945 in Italia; il 1989 o il 1991 in Ucraina; il 1865 negli Stati Uniti), dichiarando quindi che un’epoca si è conclusa, il farlo quando tutto si è oramai consumato rischia di assumere i caratteri di una rivalsa dei deboli e dei fragili. Deboli e fragili rispetto a quella sicurezza nei fondamenti della democrazia che dovrebbe invece cautelare a priori da tentazioni autoritarie, se non peggio. Oppure, il che non smentisce quanto appena detto, rivela che una resa dei conti di antica data è ancora aperta. Quindi irrisolta. Così è nel caso italiano, dove il rapporto con il fascismo e la sua memoria rimane un problema per non poche persone. È come se una parte dei nostri connazionali fossero figli di un Edipo persistente e inconfessabile. Nel momento in cui condannano (o fingono di farlo), in verità sembrano quasi desiderare ciò che ritengono di potere rimuovere. Magari dichiarandone l’inconsistenza o l’inefficacia. Seconda osservazione: un simbolo è tale in rapporto ad un tempo ma anche a dei luoghi precisi. Se viene sottratto all’uno e agli altri è decontestualizzato. Oppure rinvia ad ulteriori significati, del tutto irrilevanti dal punto di vista politico. Una svastica, se non ci fosse stato di mezzo il nazionalsocialismo, richiamerebbe a tutt’oggi il simbolismo orientale del ciclo solare o il rimando propiziatorio e augurale alla fortuna. Se un oggetto continua a creare imbarazzo o fastidio allora la ragione della persistenza del suo valore simbolico va trovata nel fatto che un certo passato non trascorre. Il rischio, però, è di rimanere inchiodati a ciò che è stato. Una sorta di tempo cristallizzato, che non si risolve, in quanto sta in mezzo al cammino anche di chi è venuto dopo. Una situazione in cui le generazioni successive non guardano in avanti, progettando consapevolmente il proprio futuro, ma sembrano costrette ad osservare in maniera maniacale il passato con gli occhi altrui. È il limite, per intenderci, di un’idea encomiastica, puramente apologetica, celebrativa e istituzionale, di un certo antifascismo. A volte sfiduciato dai più giovani (per meglio dire: dai meno anziani) non per rifiuto preconcetto o per opposte simpatie ideologiche bensì per la modalità con cui esso viene presentato, privo di qualsiasi dinamismo, quasi costituisse invece una sorta di atto di fede al quale aderire preventivamente. Ogni generazione deve costruirsi da sé un’idea del mondo, al presente come nel passato. Il futuro deriva da questa consapevolezza, che è qualcosa a sua volta in costante evoluzione e trasformazione. Un discorso pubblico che traduca la memoria in una sorta di teca rigida e perimetrata ne annienta il suo formidabile contenuto di valori, trasformandola in una specie di obbligo che va ripetuto secondo standard privi di spirito vitale. Si sa che agli obblighi si preferisce sfuggire. La memoria viva, invece, richiama il diritto a riconoscersi come cittadini del proprio tempo, avendo piena cognizione dei trascorsi collettivi. Diritto maturato, costruito e consolidato con le proprie mani, per l’appunto, e non dovere imposto. Terzo rilievo: gli oggetti e i simboli che vengono distrutti rimandano agli sconfitti. È un particolare molto delicato. Poiché nella figura dello sconfitto non tutti vedono colui che ha giustamente perso in quanto le sue idee e il suo comportamento erano inaccettabili dal punto di vista morale, civile, politico, culturale nel momento in cui erano professati. L’abbattimento di una statua non è solo un fatto materiale, che certifica la sua intollerabilità o la sgradevolezza, ma è anche un atto a sua volta pieno di significati simbolici. È come se volesse dire che il luogo in cui viene tolto quel determinato oggetto è ripulito della presenza di un certo passato. Una sorta di revisione a posteriori. Ma la dialettica tra sconfitti e vincitori, rifacendosi a situazioni che spesso sono state anche guerre civili, tanto più in quei casi dove una parte della popolazione si contrapponeva a quella restante, non si risolve con la conclusione dei fatti d’arme e i combattimenti che hanno costellato il conflitto armato. Alla guerra calda precede e segue, il più delle volte, una specie di guerra fredda, dove le passioni vengono temporaneamente sopite, mitigate o comunque non tradotte ancora (o di nuovo) in atti di sopraffazione fisica. La qual cosa non può però volere dire che tali passioni non esistano. Come ci si comporta rispetto ad esse, fa in concreto la differenza tra il conflitto distruttivo e la mediazione consensuale. La seconda è parte del concreto agire democratico, il primo è la linfa della guerra. Rimuovere un simbolo non è una scelta di per sé esecrabile a prescindere. Ma deve inserirsi in un percorso di pedagogia civile, altrimenti rischia di essere come la polvere sotto il tappeto. Troppa polvere accumulata crea alla fine avallamenti e discontinuità nel tappeto medesimo. Quarta considerazione: se si toglie qualcosa bisogna sapere cosa mettere al suo posto dell’altro. Un basamento o un piedestallo consegnato a sé, vuoto, a volte può essere più evocativo di ciò che è stato abbattuto. Rinvia alla decapitazione, ossia ad una assenza repentina che per certuni può risultare ingiustificata. La raffigurazione pubblica di un individuo o di un evento, così come il rimando ad uno stile che esprime il senso di un’epoca, ha una fortissima carica astratta e idealizzata. È parte dell’agone collettivo, lo occupa non solo fisicamente ma anche mentalmente. Per più aspetti, è il punto di intersezione tra idea del tempo e percezione degli spazi. L’una e le altre non vivono di buchi. Se si creano degli interstizi, prima o poi qualcuno provvederà ad occuparli. Nel corso del tempo la rimozione potrebbe allora essere letta come una volontà di censura. Si sa come i martirologi si alimentino di una retorica del divieto. Chi fa professione di vittimismo si descrive sempre alla stregua di un perseguitato dalla «congiura» dei «poteri forti», poiché «la storia la scrivono i vincitori» ed essa, quindi, non sarebbe altro che il prodotto di una dottrina reversibile o comunque confutabile aprioristicamente. Non è il caso di dargli spago. Semmai gli si può consegnare una corda, ma se intende impiccarsi lo faccia da solo, con le sue stesse mani. Una democrazia matura è tale se sa anche assorbire i segni del passato senza doverli sbianchettare. Non può temere le ombre oppure obbligarsi ad un atteggiamento di falsa pudicizia, come quando, in piena età vittoriana, si metteva una tovaglia di dimensioni tali da coprire l’intero tavolo, affinché le sue gambe non fossero visibili ai commensali. La proibizione, al pari della rimozione, crea un tabù che alimenta proprio quel desiderio che dice di volere combattere. Il problema di fondo, in un’età sospesa tra licenze al narcisismo individualistico e tentazioni proibizioniste, queste ultime fondate su una dogmatica della correttezza politica tanto enfatica quanto vuota, rinvia al punto in cui è lecito, invece, ingaggiare il conflitto politico per la propria e altrui libertà. Dove si colloca, nella società alla quale ci stiamo velocemente approssimando?
Claudio Vercelli
(20 agosto 2017)