Il mezzo è mezzo messaggio
I manicomi sono stati (giustamente) chiusi ma, per fortuna, è rimasta Facebook, che ci permette di scambiarci feroci contumelie senza il fastidio dei freni inibitori. Mi pare di ricordare che, secondo William James, non si piange perché si è tristi ma si è tristi perché si piange. Se le cose stanno così, non insultiamo su Facebook perché siamo infuriati ma siamo infuriati perché insultiamo. Non c’è che dire: è un grandissimo passo avanti.
Su Facebook vi sono pure lati ameni, quasi frivoli, come postare la foto del piatto ordinato in ristorante; peccato che non esista più il settimanale Cuore, perché la sua rubrica “E chi se ne frega” sarebbe stata particolarmente idonea. Col piatto, nessun problema, è qualche cosa di innocuo, ma so che molti tremerebbero al pensiero di quel che potrebbe postare chi s’ispirasse ai commensali de Il fantasma della libertà di Luis Buñuel.
Grazie a Facebook tutti diventiamo editorialisti. Ciascuno di noi, durante la sua giornata, si persuade di essere autore di una trovata unica da comunicare in fretta all’universo mondo, anche se si trattasse dell’invenzione della ruota; oppure vi è chi considera di dover reagire ad un’ingiustizia, sommando la propria voce a quella altrui, in particolar modo contro ebrei ed immigrati, e se i primi sono pure israeliani ed i secondi hanno la pelle scura, meglio ancora.
Infatti, Marshall McLuhan (Understanding Media: The Extensions of Man) aveva chiarito che le conseguenze sociali e personali di ogni congegno risultano dalla nuova scala che è introdotta nella nostra attività da ciascuna estensione di noi stessi o da ogni nuova tecnica. Così, Facebook ci dà la sensazione di essere all’altezza di chiunque altro, assieme a un’ulteriore sensazione di impunità, senza considerare, a quest’ultimo riguardo, che un “like” potrebbe in certi casi configurare il reato di concorso in diffamazione aggravata.
È assai verosimile che l’insegnamento di McLuhan, morto nel 1980, possa trovare applicazione anche ai nuovi social media; così come è altrettanto verosimile che l’Aleph di Jorge Luis Borges, scomparso nel 1986, anticipasse Internet: “Ogni cosa… era infinite cose, poiché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide…”.
Accade pure che, in certi media, alle persone di sinistra saltino gli schemi marxisti, per cui al cospetto di qualche episodio particolarmente antipatico, non vi ravvisino più la lotta di classe bensì l’invidia di classe, svelando come il loro inconscio sia densamente popolato da schemi borghesi, più fondati che sorpassati.
Naturalmente, l’amicizia su Facebook non ha nulla a che fare con quella enunciata da Cicerone quale “intesa perfetta di intenzioni, di aspirazioni e di opinioni” (De amicitia), bensì riguarda la concessione della possibilità di farsi i fatti nostri in cambio della promozione della propria persona, un traguardo legittimo, anche se palesemente intriso d’ofelimità.
Tant’è che gli stessi che festeggerebbero con infinite libagioni la fuga della moglie, si dolgono con le loro migliaia di “amici” quando vengono depennati, bannati o elisi dalle pagine di Facebook, perdendo una (per loro) preziosa amicizia virtuale.
Tuttavia, i maggiori danni che provoca Facebook non sono quelli che abbiamo dianzi evocato, ma piuttosto la sostituzione del mondo reale con quello virtuale, attuata attraverso l’eliminazione della complessità quale corollario della banalizzazione di ogni concetto.
Così, recenti dibattiti di grande rilevanza sono stati spesso resi vani o pressoché dalla loro trattazione su Facebook, dove i discorsi più profondi finiscono per incagliarsi e naufragare in un oceano d’animosità crescenti. Certo, non dev’essere una scusa; la mia mail contiene ancora la giustificazione di una giornalista su un suo discutibile articolo: attribuiva la responsabilità dei suoi svarioni alla velocità cui, all’epoca, la costringeva il suo Blackberry.
Emanuele Calò, giurista
(22 agosto 2017)