Il vuoto e il pieno
Si è ripetutamente detto e scritto che chi non ricorda è destinato a rivivere il passato che ha rimosso, rifiutato o che, più semplicemente, continua a ignorare. L’ignoranza, peraltro, non è un vuoto da colmare ma una specifica strategia di comportamento nella vita di ogni giorno: chi non sa, spesso non vuole sapere. Non intende ragione al riguardo, preferendo, e di molto, proseguire sulla sua strada, evitando quindi l’onere delle verifiche e dei riscontri. Non di meno, si è sottolineato in più occasioni che la risposta a questi rischi, sempre incombenti, consiste nello sforzo di fare capire cosa è successo e quali siano, nel caso dei disastri umani, i percorsi da evitare, così come le condotte da assumere per non cadere nelle trappole che portano alle tragedie collettive. Senz’altro una cittadinanza consapevole richiede anche un tale stato di cose. C’è quindi di che convenirne. Non esiste tempo presente, e ancora meno disposizione verso il futuro, se ciò che è stato (fatto) viene dimenticato. D’altro canto, ogni grande crimine per prodursi reclama l’incoscienza dei molti. Combattere quest’ultima vuol dire adoperarsi contro la propensione umana alla distruzione. Ma tutto ciò è solo un punto di partenza rispetto al buon uso del passato. Una pedante pedagogia pubblica che traduca la conoscenza in un obbligo, un sorta di “dovere della memoria”, anche se ispirata alle migliori intenzioni può favorire l’eterogenesi dei risultati, alimentando rifiuto o comunque scetticismo. Sembra, infatti, più una prescrizione che non una cognizione. La memoria è invece un diritto e, come tale, non solo una condizione in costante evoluzione e mutamento ma anche una consapevolezza che va conquistata e acquisita nel tempo. All’idea stessa di diritto, infatti, si lega quella di impegno, ossia di lotta per la sua affermazione e condivisione. Non è quindi una dottrina e neanche un semplice ricalco di quanto avvenne bensì una relazione al presente, dove fondamentale è la piena cognizione per cui ognuno di noi esiste sempre e solo in rapporto agli altri. Nel senso, in quest’ultimo caso, che l’esistenza individuale è inevitabilmente vincolata a quella dei nostri contemporanei. Non ci troviamo dinanzi ad elementi di una filosofia spicciola e neanche a prescrizioni. Si tratta, semmai, di riscontri che dovrebbero risultare ovvi, acquisiti quando, invece, non lo sono in alcun modo. Si è detto, non di meno, che il passato si può ripetere quando non se ne comprenda il senso. Anche questa affermazione è fondata e, quindi, sottoscrivibile. Ma per capire il significato di quel che è stato bisogna usare un codice di trasmissione e di interpretazione condiviso. Quando questo elemento viene a mancare o a difettare, allora il rischio che il passato assomigli di più ad una scatola vuota che non ad un percorso comune, una teca nella quale ognuno mette di volta in volta ciò che preferisce, disinteressandosi dell’obbligo di coerenza, è immediatamente dietro l’angolo. Oggi ci troviamo dinanzi non solo ad una disinvolta riscrittura della storia, tale poiché piegata alle esigenze di certe letture personaliste, identitarie e, quindi, nettamente faziose, ma anche alla convinzione che così facendo ci si comporti in omaggio ad una non meglio precisata “libertà”. Il pessimo uso dell’idea del passato, infatti, non ha molto a che fare con l’indifferenza in quanto tale verso i trascorsi. Semmai è una licenza di rilettura che, simulando la novità, il clamore, il rimando al sensazionalismo, disintegra il significato condiviso e l’accordo su come interpretare i segni e le tracce che ci sono pervenute da chi ci ha preceduti. La non comprensione, allora, non corrisponde ad un rifiuto o ad una rimozione. Non è il vuoto dell’ignoranza ma il pieno della tracotanza. Poiché chi non comprende ha in genere la presunzione di già sapere, non necessitandogli nessuna verifica. La storia diventa allora un bricolage, dove si tolgono e si mettono a proprio piacere tasselli di un castello immaginario. La presunzione, in questo caso, cancella non solo la complessità di quello che è stato ma anche le difficoltà del presente, contrapponendo all’una e alle altre i semplicismi intollerabili delle banalizzazioni e degli schematismi. Una falsa rassicurazione è, quasi sempre, il timbro prevalente nella melodia dei pifferai magici di ogni tempo e di qualsiasi dove. La meta è però una sola, e coincide con l’abisso della ragione.
Claudio Vercelli
(27 agosto 2017)