…immigrazione

All’attenzione della Giornata Europea della Cultura Ebraica c’è quest’anno la Diaspora. Come dire che il pensiero è rivolto senza troppi infingimenti alle migrazioni dei nostri giorni e ai problemi connessi. Problemi di identità e di adattamento per chi emigra, problemi di identità e di accettazione per chi, di fronte all’immigrato, si pone lui stesso problemi di identità e di disponibilità all’accoglienza e alla convivenza. Perché l’immigrazione porta con sé culture diverse, visioni esistenziali diverse, costumi relazionali diversi.
Non che gli stupri dei nostri giorni dipendano dalla cultura di provenienza degli stupratori. Forse essi dipendono fondamentalmente dalla loro personale propensione alla bestialità, e non dall’ambiente da cui provengono. Benché l’idea che si concepisce del ruolo della donna nella società ha sempre un’influenza sull’attitudine alla violenza e al sopruso, sull’idea di poter disporre di una donna a piacimento.
Ma esistono anche stupratori indigeni, cresciuti e nutriti dalla nostra stessa cultura, e tuttavia non meno animaleschi.
Il problema sta nel saper, o poter, riconoscere gli individui, nel saper distinguere l’uomo dalla bestia, l’onesto e l’integro dal criminale.
Di fronte a un fenomeno pervasivo come quello dell’immigrazione di questi nostri giorni è necessario essere noi, soprattutto, onesti nel pensare e nel governare le nostre reazioni emotive.
A preoccupare sono le posizioni della politica che ci governa e che ci indirizza. Da una parte, chi, guidato da uno spirito conservatore quando non reazionario, paventa l’invasione e il rischio della contaminazione etnica, e usa lo strumento della paura a fini politici, agitando lo spettro dell’imminente distruzione della nostra civiltà. Dall’altra parte chi, in difesa di principi egalitaristi e progressisti, dichiara la necessità di accogliere indistintamente tutti coloro che si affacciano alle coste del Paese. La polemica politica si è assestata su queste due posizioni estreme e sembra non esista la ricerca di una ragionevole posizione mediana.
La prima posizione, quella del rifiuto assoluto, non riesco neppure a prenderla in considerazione, perché sono stato io stesso ‘straniero in terra d’Egitto’, e la Svizzera mi ha accolto e mi ha salvato da nazisti e fascisti. È invece sulla seconda opzione che sento necessario riflettere.
Ora, è certamente difficile separare a priori il grano dal loglio, come si soleva dire un tempo, ma qualche cosa, magari a posteriori, si potrebbe pur fare per rendere più agevole e meno accidentato il percorso di integrazione dei nuovi arrivati. Una percorso obbligato di culturalizzazione dell’immigrato, ad esempio, che non sia un lavacro disidentificante, bensì un’immersione nella cultura e nella civiltà del paese ospitante. Ma anche, e soprattutto, percorsi di formazione professionale e artigianale, l’inserimento obbligatorio in cooperative di lavoro che evitino che i giovani immigrati ciondolino agli angoli delle strade a mendicare, col cappellino rasta in testa e il telefonino all’orecchio, preda di racket mafiosi.
Se la sinistra progressista non accetta di guardare in faccia la realtà continuerà a dare armi e alibi alla destra reazionaria per politiche populiste e razziste di esclusione. Perché qualcuno potrà dire che i delinquenti e gli stupratori nostrani non possiamo evitarli, ma di quelli di importazione potremmo benissimo fare a meno. E il discorso non fa una piega.
Insomma, essere di sinistra non significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà, ma migliorarla cercando le giuste soluzioni.

Dario Calimani, Università di Venezia

(5 settembre 2017)