Storia – Deportato, poi dimenticato. La strana guerra del contadino Elio

elioFrediano Sessi / Elio, l’ultimo dei Giusti / Marsilio

Elio Bartolozzi aveva vent’anni nella primavera 1944, era l’unico dei figli adulti di una famiglia di mezzadri toscani a non essere andato in guerra, perché aveva perso un occhio da bambino. Un fratello, Gino, rientrato dalla Russia, si nascondeva in soffitta, un altro, Dino, era prigioniero in Jugoslavia. Il padre Angiolo era stato prigioniero nella Grande guerra. Elio non si sentiva in debito con la patria e aveva scelto di lavorare la terra mentre infuriava la guerra civile. Anche a Ceppeto, il suo paese, non lontano da Firenze, arrivavano le notizie dei partigiani uccisi, delle imprese della banda fascista di Mario Carità, che torturava i prigionieri a Villa Triste. I fatti incalzavano e presto anche per Elio sarebbe arrivato il momento della scelta. Una scelta raccontata magistralmente nel nuovo libro di Frediano Sessi, Elio, l’ultimo dei Giusti (Marsilio). Il 4 aprile i partigiani presero d’assalto alla stazione di Montorsoli un treno che trasportava truppe della Rsi. La reazione dei fascisti fu dura. Cinque attaccanti vennero feriti, due in modo grave, avevano bisogno di cure. I partigiani, accompagnati da un contadino con il suo carro, poco prima di cena bussarono alla porta dei Bartolozzi: occorrevano buoi freschi per raggiungere Pescina. Elio era la persona adatta per la missione. Il giovane non voleva rischiare, ma quando capì che era in gioco la vita di due uomini, accettò. Rientrato all’una di notte, spossato, si era appena messo a letto quando sentì di nuovo bussare alla porta. Erano i fascisti accompagnati dal contadino, cui aveva dato il cambio, che lo indicò. Da quel momento la vita di Elio divenne un inferno. Fu torturato a Villa Triste, i fascisti volevano sapere i nomi dei partigiani e l’indirizzo dove aveva portato i feriti. Elio ripeteva di essere stato costretto, che aveva lasciato i feriti a un quadrivio e non aveva visto la strada che gli altri avevano preso. L’interrogatorio andò avanti a lungo, ma il giovane non parlò, finché fu trasferito alle Murate. Di qui l’u giugno venne deportato nel campo di Fossoli, quindi in quello di Gries, a Bolzano, poi a Mauthausen e infine, il 12 agosto 1944, a Gusen, il «campo di prigionia e di eliminazione» dove i deportati scavavano gallerie destinate a fabbriche di guerra. Chi lavorava in quei sotterranei non sopravviveva oltre cinque o sei mesi. Elio fu fortunato e vide l’alba del 6 maggio 1945, giorno dell’arrivo degli americani. Rientrato in Italia, ebbe le difficoltà di tutti i deportati, ma con un’umiliazione in più. Non gli venne mai riconosciuto lo status di partigiano. Era pieno di rabbia e a messa la domenica gli capitò di incrociare lo sguardo del contadino che l’aveva tradito. Nonostante Il risentimento, decise di non denunciarlo. Aveva visto troppe violenze e miserie, avrebbe scritto nel suo diario La mia vita prigioniera, rimasto a lungo inedito. Elio si sposò, ebbe figli, lavorò come giardiniere, e morì nel2oo4. Sulla lapide alla stazione di Montorsoli, che ricorda le vittime partigiane del 1944, il suo nome non compare. Ai suoi funerali nessun rappresentante dell’Anpi (l’associazione dei partigiani) né dell’Aned (quella dei deportati). Chi fu partigiano? Chi riscattò il nome dell’Italia dopo il fascismo? Soltanto coloro che combatterono armi in pugno? O anche chi, come Elio, diede una grande testimonianza umana e pagò a caro prezzo, e in silenzio, la sua scelta? Eroismo

Dino Messina, Il Corriere della Sera, 30 agosto 2017