Periscopio – 11 settembre

lucreziCome mi pare di avere già ricordato, il ricordo della strage dell’11 settembre mi è sempre rimasto particolarmente impresso nella memoria, perché la sera del 26 luglio 2001 (quindi un mese e mezzo prima) ero sulla cima di una delle due torri. Era l’ora del tramonto, e vedere, sotto di noi, minuto dopo minuto, una dopo l’altra, accendersi le innumerevoli luci dell’isola di Manhattan era davvero uno spettacolo mozzafiato. E quando guardo le fotografie di quella serata, che ritraggono me e le due persone in mia compagnia (una delle quali era il mio carissimo amico Raphi Gamzou, all’epoca addetto culturale della rappresentanza diplomatica d’Israele presso l’ONU, e attualmente Ambasciatore a Lisbona) in un momento di emozione e felicità, provo un profondo sentimento di angoscia e vertigine.
Tornato a N.Y. pochi anni dopo, sono andato in raccoglimento a Ground Zero, dove ho visto lo stato di avanzamento dei lavori di costruzione del memoriale, ed è quindi ovvio che, la settimana scorsa, tornato in quella città straordinaria – da secoli simbolo, in tutto il mondo, di libertà, interculturalità, accoglienza, audacia, futuro -, sia andato a visitare il complesso monumentale, consistente, com’è noto, nelle due enormi, impressionanti cascate di acqua, nella Freedom Tower e nel Memorial Museum (per la cui concezione e struttura sono state evidentemente tenute presenti alcune idee e soluzioni adottate per lo Yad Va-Shem di Gerusalemme, nonché per lo Judisches Museum di Berlino). Posso dire che, complessivamente, il modo in cui si è scelto di rendere testimonianza dell’accaduto mi appare felice ed equilibrato, in quanto riesce a conciliare le diverse – e non sempre concordanti – esigenze di rendere onore alle vittime, riaffermare i valori della democrazia americana, esprimere un desiderio di riscatto e rinascita. Decisamente giusto, secondo me, avere scartato l’idea – che pure era stata sostenuta – di ricostruire le due Twin Towers assolutamente identiche a come erano, come se niente fosse accaduto.
Ma ciò che vorrei oggi commentare è la scelta di incidere, nel cuore del Memoriale, in grandi lettere di acciaio – ricavato da quello delle torri abbattute – una traduzione in inglese del noto verso di Virgilio – tratto dal IX canto dell’Eneide, e riferito a Eurialo e Niso – riguardante l’eternità della memoria: “Nulla dies umquam memori vos eximet aevo”: “No day shall erase you from the memory of time”.
Come italiano, ho provato un legittimo sentimento di orgoglio nel vedere le parole dell'”anima cortese mantovana” (Inferno, II. 58), sull’aspirazione umana a un ricordo imperituro, poste a suggello di un monumento che aspira, certamente, a dare un senso di memoria eterna. Ma, attingendo al ricordo dei miei studi classici – un po’ proseguiti nel mio lavoro -, mi sono accorto che la traduzione inglese era leggermente imprecisa, in quanto il verso virgiliano non parla di una cancellazione “dalla memoria del tempo”, bensì, cosa un po’ diversa, “da un tempo memore”, “un’epoca memore”, “che ricorda”: “nessun giorno vi toglierà mai da un tempo dotato di memoria”. Ho controllato, e ho visto che questa licenza poetica era già stato notata, ma – per mia deformazione professionale – mi sono anche soffermato su alcune delle riserve che sono state formulate sulla traduzione, e non mi sono trovato molto d’accordo, perché non mi pare che si possa dire che il senso dell’espressione sia stato stravolto. L’idea virgiliana dell’aspirazione a una memoria eterna è resa fedelmente dalla frase inglese, ed è questo quello che conta.
Non ha alcuna importanza, invece, a mio avviso, il fatto che il verso latino appartenesse, nell’Eneide, a un quadro narrativo del tutto diverso, a proposito della memoria delle virtù militari degli antichi eroi. È ovvio che la frase viene estrapolata da un determinato contesto per essere inserita in uno nuovo, e che ciò avvenga è solo dimostrazione della forza evocativa della poesia – e di quella di Virgilio in particolare -, della sua capacità di attraversare il tempo e lo spazio. Così come è ovvio che gli antichi romani avevano un concetto di memoria del tutto diverso dal nostro: le vittime, in quanto tali, non erano meritevoli di ricordo, la gloria era destinata solo agli eroi – preferibilmente i vincitori, ma anche gli sconfitti, purché valorosi -: anche a questo servivano le guerre, a dare onore e immortalità ai combattenti. Oggi non è più così, ma l’esigenza di sfidare il tempo attraverso la memoria, sia pure in forme diverse, è la stessa di allora. Quando la grande Marguerite Yourcenar, nelle sue Memorie di Adriano, immagina le parole che l’imperatore avrebbe dedicato al suo amante scomparso, Antinoo, riprende esattamente il concetto di Virgilio, e lo fa con una sensibilità che è insieme antica e moderna: “sul suo nome sarebbero passati milioni di giorni, senza restituirgli la vita, ma senza neanche nulla aggiungere alla sua morte. Niente avrebbe mai potuto eliminare il fatto che egli era esistito”.
Ma la cosa principale, secondo me, è che il vero soggetto della frase di Virgilio è proprio “il tempo”, l'”aevum” (parola che, talvolta, può essere tradotta proprio col termine ‘eternità’), che, per custodire il ricordo dei due eroi, deve restare “memore”, custode della memoria. Per il poeta, ciò varrà fino a quando “la casa di Enea abiterà l’immobile roccia del Campidoglio, e il padre romano manterrà il potere del mondo” (“dum domus Aeneae Capitoli immobili saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit”). Oggi che la casa di Enea non abita più là, e l’impero romano non c’è più, il tempo è forse diventato immemore? Se pensiamo a Eurialo e Niso, potremmo rispondere di no, perché il loro ricordo è ancora scolpito nel tempo, e, in quanto affidato alla poesia di Virgilio, pare destinato davvero a una memoria eterna, giacché custodito all’interno di una “fama che ancor nel mondo dura, e durerà quanto il tempo lontana”, cioè per sempre (Inferno II. 59-60). A rendere il tempo memore, nonostante quanto detto da Virgilio (ma non è detto che lo pensasse davvero: non dimentichiamo che aveva un importante committente, che doveva pur compiacere), non è quindi il potere, ma – come insegna Dante, suo degno ‘allievo’ – la poesia.
Possa la poesia di Virgilio vigilare, con la sua forza e la sua delicatezza, sulla memoria delle vittime dell’11 settembre.

Francesco Lucrezi, storico

(6 settembre 2017)