VIOLENZA E FOTOGRAFIE – COSA È GIUSTO PUBBLICARE Il Cuore Sigillato

Di nuovo un omicidio, e di nuovo circolano immagini orribili, mi passano davanti e le vedo solo con la coda dell’occhio. Scorro velocemente le pagine internet, cerco di non passare davanti al giornalaio, e spero sempre che nessuno dei miei amici su Facebook decida di condividerle.

Pubblicizzare le fotografie dalla scena di un massacro è un atto barbaro che porta ad un oscuramento della mente e delle emozioni. Le suddette immagini colpisco in tre modi. In primis, vengono colpite le vittime stesse, i loro parenti, vengono colpiti coloro i quali sono sopravvissuti ad attacchi terroristici del passato, risvegliando in loro traumi e memorie.

Pubblicizzare quelle foto non colpisce solo noi che le vediamo, ma vanno ad influire anche su coloro i quali decidono di portarle all’attenzione dei propri contatti, va a colpire i fotografi, i grafici, i video editors e gli internet editors, nonché tutti coloro i quali sono costretti per forza di cose, a distaccarsi dalla situazione ritratta nelle foto onde poterle presentare nel modo più efficace. “Che ne pensi? Ci mettiamo una cornice rossa intorno? Oppure ingrandiamo il tutto e mettiamo la foto al centro?”

Tuttavia, le foto vanno a colpire soprattutto voi. La foto agisce sulla psiche di chi la vede come una droga, che viene somministrata in dosi sempre maggiori, allorché la dose non è mai sufficiente. Certo, è ovvio che la foto è orribile: tuttavia ci dobbiamo chiedere quanto possiamo rimanere inorriditi, quante volte possiamo vedere la stessa foto e sentire che qualcosa dentro il nostro cuore trema? C’è un limite all’orrore, oltre il quale il cuore si chiude su se stesso e si oscura. Trasmettere le foto per televisione vuol dire trasformare il massacro in un evento televisivo, non molto diverso dall’ennesimo episodio di “Game of Thrones.” Il massacro viene trasformato in una finzione, un guscio che al suo interno non ha nulla.

Eppure c’è sempre qualcuno che spinge a pubblicizzarle, affermando ch’esse potranno colpire l’opinione pubblica mondiale. Supponiamo per un momento che ogni mezzo è davvero lecito per raggiungere il proprio fine. Supponiamo solo per un attimo. Rimane da chiederci quale sia questo fine. È forse colpire la sensibilità dell’opinione pubblica e far inorridire il mondo? È forse giustificare la nostra causa? Coloro i quali sono a favore di un pubblicizzare incondizionato di tali foto, portano solitamente come esempio la fotografia fatta al bambino siriano morto e portato a riva dalle correnti del mare. Quella foto in particolare era orribile per il semplice fatto che quel bambino non sembrava morto, ma semplicemente addormentato. Quello che colpì allora il pubblico mondiale fu lo spazio che separava l’apparenza dalla verità, la rappresentazione dalla notizia. Quel che inorridì allora fu la storia che stava dietro alla foto, e non la foto in se.

Viviamo in un periodo in cui la cultura è prevalentemente visuale, ragione per la quale ogni notizia deve essere forte perché possa far presa sull’opinione pubblica. Ed è proprio questo il problema: l’incapacità di base negli spettatori a distinguere fra un massacro televisivo ed un omicidio vero. In questa folle corsa all’inorridire, la capacità dell’individuo a provare empatia viene sostituita dall’orrore e da un breve schioccare della lingua. Passando di foto in foto, noi, come osservatori, diventiamo sempre più
Insensibili, mentre il cuore si racchiude su se stesso, sigillando se stesso e lasciando al di fuori l’orrore, lasciandoci incapaci (o forse semplicemente nolenti) a distinguere fra la rappresentazione e la verità.

Pensate forse che quel sangue sulle pareti rappresenti l’evento stesso? Tre persone sono state trucidate mentre mangiavano insieme il pasto dello Shabbat, e l’orrore vero non è il sangue sul pavimento della cucina, ma le tre vite troncate, nonché le vite dei parenti e degli amici. L’inorridimento per quelle foto del sangue si spegnerà molto in fretta. La domanda che ci dobbiamo fare è: quanto rimarranno i nomi di quelle tre vittime nella coscienza collettiva? Yossi, Chaya e El’ad. Raccontate chi erano quelle tre vittime, raccontate di cosa fecero nelle loro vite, raccontate del vuoto lasciato dalla loro morte, raccontate della vita dei loro orfani , delle loro vedove, dei loro fratelli in lutto, del vuoto che questo massacro ha cavato nelle vite dei loro parenti. Grazie a questo raccontare e ripetere le storie delle vittime, si riuscirà ad ottenere un effetto di gran lunga più duraturo e profondo dell’ennesima foto orribile, dell’ennesima scena.

Motty Fogel

Motty Fogel ha perso suo fratello Udi, che con la moglie Ruth e tre dei loro figli sono stati vittime di un attacco terroristico a Itamar. L’articolo è stato pubblicato in ebraico su Yediot Aharonot il 24 luglio 2017. La traduzione è di Yaakov Mascetti.