Tra permanenza e mutamento
Sia la condizione diasporica che l’idea di nazione di matrice ebraica hanno costituito due paradigmi moderni ai quali altri movimenti e gruppi si sono ispirati, non importa quanto consapevolmente, nel Novecento. Va tuttavia precisato un fatto. Vi sono peculiari caratteristiche della diaspora ebraica che si ritrovano e si rinnovano, sic et simpliciter, nelle altre diaspore in generale, senza che vi sia necessariamente un qualche disegno imitativo. Il vero punto nodale è comunque dato dal riconoscersi come parte di una comunità che deve ricomporsi. A partire da ciò si innesca una traiettoria che richiama, per identificazione esplicita, come anche per dinamiche autonome – in questo secondo caso tali perché non direttamente associate al precedente ebraico -, quanto è comunque di storicamente consustanziale alla storia degli ebrei. Non di meno, la lunga permanenza di una coscienza diasporica è ciò di più peculiare che l’ebraismo abbia apportato. Alimento d’essa sono stati l’intreccio tra dimensione storica e componente religiosa delle tradizioni, insieme all’alto livello di alfabetizzazione, fatto quest’ultimo che permise non solo la rielaborazione della cultura ma anche la sua trasmissione tra poli spazialmente segmentati. I Testi sacri, da questo punto di vista, hanno costituito un vettore formidabile. È stato detto che: «una memoria collettiva costruita sulla cultura scritta, la cui trasmissione non è stata affidata a depositari del sapere sacro ma a tutta la collettività, e priva di un luogo in cui appoggiarsi, ha facilitato la resistenza culturale e su quello che potremmo definire il proprio capitale simbolico». Di fatto diaspora ha significato circolazione: di notizie, di idee, di esperienze. Il paradigma dell’esilio, infatti, non si basa sulla fissità bensì sulla mobilità. All’interno di questo campo di trasformazioni mantiene alcune coordinate, a partire da quella linguistica. Se è vero che l’ebraico decadde, trasformandosi in lingua liturgica, è non meno vero che rimase e si consolidò il ricorso all’alfabeto ebraico, adottato nelle lingue di fusione come l’yiddish, il giudeo-spagnolo, il giudaico-arabo e così via, filtro rispetto ai processi assimilazionisti ma anche trait d’union tra comunità altrimenti molto diverse. Lo scarso rilievo dell’analfabetismo – per usare il testo sacro occorreva sapere leggere e scrivere – è stato quindi un fattore strategico. Più in generale, nella tessitura permanente dei rapporti tra comunità esiliache il tema della comunicazione divenne capitale e si consolidò quando i testi a stampa ebbero una sempre più ampia diffusione. Si può affermare per più aspetti che la trama dei rapporti a distanza costituì l’oggetto diasporico stesso: si era parte di una comunità sovranazionale nella misura in cui si era uno snodo nella circolazione di questa merce-informazione. La nozione di rete informativa in campo ebraico ha quindi anticipato, e di molto, i fenomeni della globalizzazione capitalistica per come sono stati poi vissuti negli ultimi due secoli. Se pertanto si ragiona sulle dinamiche di lungo periodo i nessi tra il modello ebraico ed altre diaspore possono risultare molteplici. Ciò che si attribuisce agli ebrei, infatti, può diventare proprio a tutti i movimenti dell’esilio: la memoria come principale tratto identitario; la coesione e la solidarietà interne al gruppo; la propensione a coltivare rapporti fondati sull’endogamia, anche se questa non è necessariamente esclusiva; la presenza preponderante in alcuni segmenti del mercato del lavoro; la specializzazione culturale all’interno della società ospite; il ricorso ad una letteratura dell’esilio che alimenta i tratti identitari preesistenti e, in parte, li trasforma; la propensione ad usare i vincoli di appartenenza come strumenti di contrattazione all’infuori del gruppo di riferimento; l’avanzare rivendicazioni nei confronti delle amministrazioni pubbliche in quanto membri di una comunità, fatto che da sé giustificherebbe il fondamento giuridico e civile delle richieste medesime. I movimenti neri di liberazione cresciuti negli Stati Uniti a cavallo tra il XIX e la prima metà del XX secolo si sono variamenti incontrati con il calco ebraico. Basti il richiamo al fatto che, in una sorta di gioco delle reciprocità, lo stesso Theodor Herzl, padre e mentore dell’impresa sionista, identificò nel ritorno a Sion un precedente sulla base del quale altre comunità oppresse, a partire da quelle nere, avrebbero potuto ricostruire la loro storia, la propria dignità e, soprattutto, trasfonderla in un progetto politico. Più che la concretizzazione di un’antica ispirazione il sionismo si presentava così come il punto di confluenza, ossia il precipitato, tra identità pregresse e il loro incontro con la modernità. La sua centralità sta in questo nesso, laddove la modernità, nel suo essere eminentemente esperienza della mobilità, della mutevolezza, metteva in crisi le forme della soggettività per come si erano date, nella loro cristallizzata stanzialità. Non parrà quindi una forzatura il riaffermare che il sionismo, nel suo rivendicare l’inderogabilità di un fondamento territoriale, abbia in realtà corrisposto al mutamento che stava coinvolgendo tutta l’area mediterranea e mediorientale, laddove alla consunzione della forma imperiale si sostituiva quella nazionale. Il progetto di radicamento territorialista rispondeva infatti alle nuove configurazioni che le identità collettive andavano assumendo. Cognizione ultima del sionismo era che la preservazione della diaspora non potesse più corrispondere con la sua fissità. Non è un caso, infatti, se il sionismo sia stato un movimento a forte matrice laica, dove la ricomposizione avveniva sulla base di un progetto peculiare, quello che avrebbe dovuto non tanto creare uno Stato degli ebrei bensì un nuovo modo di essere ebrei, secondo le coordinate che i nazionalismi risorgimentali e i socialismi andavano predicando. Sta di fatto che il percorso attraverso il quale si realizzò questo intendimento fu quello della definizione di una «nazione ebraica», dal tratto sovra-territoriale ma dai connotati fortemente caratterizzati. La questione della cittadinanza virò da subito verso questo esito, che fu recuperato interamente, dopo la nascita dello Stato d’Israele, dalla legislazione in materia. L’intera questione fu elaborata prima del 1948 nei termini della rigenerazione di una diaspora altrimenti incapace di fare i conti con lo spirito dei tempi correnti, rischiando di esserne travolta per assorbimento, e poi nei decenni successivi alla costituzione dello Stato come redenzione dalla catastrofe per eccellenza della modernità, lo sterminio nazista di massa. Quest’ultimo motivo è divenuto, nei tempi più recenti, un costrutto fondamentale della politica israeliana, alternandosi e sostituendosi ad altri ordini di considerazione. Non ha portato a nessuna estinzione della diaspora per un motivo al contempo semplice così come al limite dell’impronunciabile: non può esistere un popolo israeliano senza che si dia anche un popolo d’Israele e quest’ultimo sta essenzialmente nella sua connotazione esiliaca. Non è questione di religione ma di esperienza storica. Di fatto, nelle concrete dinamiche tra centro e periferia dell’ebraismo, si rinnova il principio per cui non si dà mai un unico terminale ma piuttosto una ramificazione perpetua.
Claudio Vercelli
(estratto da Claudio Vercelli, L’ebraismo nel mondo e il sionismo come specchio di una modernità incerta, in AA.VV., Uguali e diversi. Diaspore, emigrazioni, minoranze, Viella, Roma 2014)
(10 settembre 2017)