Periscopio La sindrome del successo
Accanto alla sindrome di Stoccolma e a quella di Stendhal, credo che ci sia, da alcuni anni, una nuova, particolare sindrome, che mi pare colpisca gli scrittori israeliani di grande successo. In cosa consiste? Nel fatto che, quanto più sono bravi, quanto più guadagnano, meritatissimamente, le luci della ribalta internazionale, quanto più riescono a scavare, con i loro meravigliosi romanzi, nelle pieghe più recondite dell’animo umano, a scandagliare le gioie e i dolori, le speranze, le illusioni e le cadute degli uomini, tanto più, quando dismettono i panni dello scrittore, per rivestire quelli dell’opinionista politico, paiono perdere completamente il senso della realtà, proponendo brillanti soluzioni per un mondo che, semplicemente, non esiste, se non nella loro fantasia. Per prevenire prevedibili critiche, confermo – anche se non ce ne sarebbe bisogno – che la vivacità del libero dibattito politico in Israele rappresenta una preziosa forza e ricchezza, e che considero penosi, in ogni luogo e in ogni tempo, gli intellettuali lacché del regime. Ma qui non si tratta, secondo me, di censurare o ammirare questo o quel governo, questa o quella politica, ma, ripeto, semplicemente, di dimenticare la realtà, e di fantasticare intorno a uno Shan Grillà da favola, a un luna Park immaginario.
Ma come ti permetti, potrebbe dire qualcuno, di fare la lezione a dei famosi romanzieri, che vivono in Israele, condividendone le ansie e i pericoli, tu che non sei nessuno, e scrivi al sicuro dal comodo della tua scrivania? È vero, chiedo scusa. Ma penso che anche gli ultimi, anche i minimi abbiano il diritto, se non il dovere, di dire, in piena coscienza, quello che pensano. Perciò, confermando la mia incondizionata ammirazione per gli autori di alcuni tra i maggiori capolavori della letteratura universale – come scrittori, non come politici -, mi permetto di condividere la mia impressione che alcuni di loro – non ne faccio l’elenco, che apparirebbe come una sorta di lista di proscrizione -, nel commentare la situazione mediorientale, commentino in realtà una specie di onirico luna Park, facile da plasmare, smontare e ricostruire a proprio piacimento: basta spostare un’insegna da qua a là, sostituire questo o quel gioco, aggiustare le luci e i colori, ed è fatta.
Una conferma di questa peculiare sindrome (“sindrome da luna Park?”) l’ho avuta leggendo la recente intervista di A.B. Yehoshua – narratore che amo moltissimo, credo di avere letto tutti i suoi libri, di fantasia e di saggistica -, il quale, con un repentino e disinvolto cambiamento riguardo alle precedenti posizioni, dichiara di avere finalmente trovato la soluzione giusta per il conflitto mediorientale. Niente più “due popoli e due stati”, ma “due popoli e uno stato”: un solo Paese, diritti e cittadinanza uguali per tutti. Davvero una soluzione semplice, geniale ed efficace, peccato che nessuno (neanche lo stesso scrittore) ci abbia mai pensato prima. Basterà fondere i due “luna Park”, Israele e Palestina, levare le due insegne, metterne una nuova (Edenlandia?), e tutto risolto. Nel nuovo parco giochi, tutti vivranno d’amore e d’accordo, in armonia e fratellanza. Solo qualche menagramo jettatore potrebbe pensare che molti dei neocittadini potrebbero subito mettersi a inseguirne degli altri, per fare loro la pelle, con molti, tra gli addetti alla sicurezza (se mai ce ne saranno), a dar loro man forte (agli inseguitori, non agli inseguiti). O che alcuni correrebbero a spalancare le porte del parco, per invitare tutti i vicini a partecipare alla festa.
Non ho mai, proprio mai espresso la mia preferenza per questa o quella formazione politica israeliana. Ma qui non si tratta di opzioni politiche all’interno del panorama politico di un determinato Paese, ma piuttosto di dire se si vuole che quel Paese esista, o che invece sia sostituito da qualcos’altro. Non sono pochi, come sappiamo, quelli che vorrebbero che Israele non esistesse. Si può dissentire?
Una cosa interessante da aggiungere è che io stesso, insieme ad almeno un centinaio di altri spettatori, durante un incontro con lo scrittore alla libreria “Guida Portalba” di Napoli, credo nel 2004, lo sentii asserire perentoriamente che la diaspora doveva ormai dissolversi, in quanto non avrebbe avuto più alcun senso: esistendo ormai uno stato ebraico, gli ebrei fuori di Israele avrebbero dovuto subito trasferirsi là, o smettere di dichiararsi ebrei. E, come risposta alle timide rimostranze di un “diasporico” presente, che diceva di volere continuare a essere ebreo fuori da Israele, gli fu sbrigativamente intimato di smettere, per coerenza, di pronunciare la formula di rito “l’anno prossimo a Gerusalemme”.
Dunque, se abbiamo capito bene, e se Yehoshua non ha nel frattempo cambiato idea anche su questo punto, lo stato ebraico non deve esistere più, e l’ebraismo fuori dell’ex stato ebraico nemmeno.
Che dire? Niente è eterno, va bene così, se serve alla pace e alla felicità del mondo. Mi sia solo permessa – affinché, in un lieto momento, davvero nessuno sia triste – una parolina di rassicurazione ai vari ayatollah, neonazisti e “biddiessini” vari, che immagino, giustamente, preoccupati, di fronte alla prospettiva di trovarsi, senza neanche gli otto giorni di preavviso, disoccupati. State tranquilli, il vecchio, logoro “luna Park” che conosciamo non chiuderà i battenti, non cambierà insegna. Potrete continuare indisturbati a boicottare i libri dello scrittore, ebreo e israeliano, A.B. Yehoshua.
Francesco Lucrezi, storico