I frutti della diaspora
Da anni l’Unione dei giovani ebrei d’Italia (Ugei) è solita “adottare” una comunità in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Quest’anno, diversamente dal passato, la gita in giornata si è trasformata in un weekend intero, in modo da partecipare allo Shabbat con la comunità e trascorrere del tempo con giovani locali e provenienti da altre città. Temporali a parte, sono stati tre giorni ideali, anche grazie alla bella ospitalità con cui siamo stati accolti. Sabato pomeriggio abbiamo discusso a lungo di diaspora, della nostra identità di italiani (ma anche europei) ed ebrei, del rapporto tutto speciale con Israele di ciascuno di noi, magari declinato in modi diversi, del rapporto tra Terra di Israele e Stato, del significato di sentirsi a casa in un luogo o forse in più d’uno.
È stato poi significativo ritrovare il giorno seguente, domenica, alcune delle suggestioni emerse, insieme a molti nuovi contenuti e stimoli, nel corso dei numerosi eventi organizzati per la GECE, il cui asse tematico portante di quest’anno è la diaspora. Diaspora non è esilio, ha argomentato il presidente della comunità Ariel Dello Strologo aprendo la giornata. Se questo secondo è condizione tipicamente negativa, diaspora, dal greco “dia-speiro”, indica l’azione di disseminare, spargere, disperdere. Anche la diaspora ebraica, dunque, è la diffusione di semi, semi da coltivare e far fruttare. Nel corso dei secoli i semi non sempre sono caduti “sulla terra buona”, ma spesso tra sassi o sulle spine; ma neanche questo autorizza a pensare alla storia ebraica come a una storia esclusivamente di dolore. Perché sono gli stessi ebrei, ha proseguito Dello Strologo citando Yosef H. Yerushalmi, ad aver letto per secoli e millenni allo stesso tempo la propria condizione come un esilio, da una parte, e dall’altra come l’opportunità di vivere in modo fecondo tra e con altri. Non è forse già questo un meraviglioso frutto dei semi dispersi?
Giorgio Berruto, HaTikwà/Ugei