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Diaspora: identità e dialogo

stefano jesurumNell’ambito della Giornata europea della cultura ebraica, ho avuto l’onore e il piacere di essere invitato dalla Comunità di Trieste a parlare del tema di quest’anno, “Diaspora: identità e dialogo”. Un intervento in qualche modo immerso nelle opere di Andy Warhol raccolte nella bella mostra ospitata dal Museo Carlo e Vera Wagner e intitolata “Jewish Geniuses. Gli ebrei geniali di Andy Warhol”.
Ecco, più o meno, ciò che mi sono sentito di dire.
Comincerei con una domanda: che cosa c’entra il nostro sottotitolo (Dallo shtetl a New York, quando l’identità trascende la diaspora) con la mostra di Warhol? Assolutamente nulla. Nessuno dei “geni” rielaborati da Warhol è nato o cresciuto in uno shtetl, solamente una esigua minoranza di essi venne alla luce in terra mitteleuropea, anche se le famiglie traevano origine più o meno tutte da lì. Quindi è semplicemente per associazione che ho proposto all’amico Mauro Tabor Tauber questo titolo. Infatti, mentre attendevo di ricevere il catalogo warholiano continuavo a sfogliare senza apparente motivo il capolavoro di fotografie che è “Un mondo scomparso” di Roman Vishniac. E così, riflettendo “per immagini” sul concetto di diaspora, ho trovato – forse nei meandri dell’inconscio – la risposta a perché mai avessi proposto un titolo tanto strampalato. Io credo che ciò che accomuna personalità e storie diversissime come quelle di Sarah Bernhardt, Louis Brandeis, Martin Buber, Albert Einstein, Sigmund Freud, George Gershwin, Franz Kafka, i fratelli Marx, Golda Meir, Gertrude Stein e i chassidim e gli haredim del ghetto di Lodz o Vilnius o dei villaggi della Russia Bianca sia l’assenza, l’essere fuori luogo, quello straniamento intimo personale e/o religioso e/o filosofico, senz’altro culturale, racchiuso nello straordinario scambio di battute tipico dell’umorismo yiddish: «“Vai dunque laggiù? Come sarai lontano!”»; “Lontano da dove?”».
Come bene ha scritto il mio amico David Bidussa, il senso comune vuole che diaspora ed esilio siano del tutto coincidenti (a onor del vero, diaspora in ebraico si dice galuth, “esilio”). Tuttavia i due termini non sono sinonimi. L’esilio implica nostalgia di un luogo da cui ci divide un evento traumatico e che tendiamo ad annullare, volendo ristabilire la condizione di partenza. La diaspora non è soltanto né prevalentemente nostalgia, cioè dolore per il desiderio frustrato di tornare; è sfidare il proprio tempo, rispondere alle persecuzioni andando altrove e reinvestendo su un nuovo inizio da un’altra parte; è conservare un po’ di ciò che si riesce a salvare nella fuga, soprattutto è reinvestire il nuovo luogo di una speranza di rinascita, di crescita e anche di rinnovamento, senza dimenticare che prima o poi, forse, si tornerà da dove siamo partiti, nel caso consapevolmente diversi.
Ma torniamo più specificamente al tema scelto quest’anno per la GECE e che pone al centro dell’attenzione l’importanza della Terra d’Israele verso la quale il popolo ebraico si incammina nel lungo esodo dall’Egitto, e verso la quale continuò a guardare nei millenni a venire. È insomma il nostro vissuto: sparpagliati in giro per il mondo a seguito della dispersione iniziata con la distruzione del Primo Tempio (ad opera dei Babilonesi nel 586 a.e.v.) e reiterata con la distruzione del Secondo Tempio e la presa di Gerusalemme nel 70 da parte dei Romani. Senza ovviamente scordare la cacciata dalla Spagna nel 1492 e le altre espulsioni, di maggiore o minore entità, che hanno costretto gli ebrei a fuggire periodicamente da nazioni e aree geografiche, fino alla cacciata dai Paesi arabi a seguito della Guerra dei Sei Giorni, cinquant’anni fa, un esodo pressoché dimenticato che vide lo sradicamento di centinaia di migliaia di persone da luoghi in cui vivevano da secoli.
E stiamo parlando comunque di espulsioni, di donne e di uomini cacciati o costretti a convertirsi. Perché poi – senza dimenticare stragi e pogrom piccoli e grandi – c’è la Shoah. Che per certi versi, e soprattutto per alcuni, della Diaspora è diventata l’emblema più significativo. Noi nati nell’immediato dopoguerra, in particolare da giovani, abbiamo trovato molta (troppa) della nostra identità, in negativo, nel sentirci salvati di fronte ai sommersi e ai non nati. Proprio qui, in Risiera, sono passati, e mai più tornati, zii, zie e cuginette di mio padre. Ma questo imprinting, oltre a essere sbagliato, la dà vinta agli antisemiti di ieri e di oggi. L’ebraismo, per me che sono laico, che non sono shomer mitzvot, cioè osservante, non è unicamente una religione e non è memoria e basta. L’ebraismo è una “civiltà” basata sullo studio, sull’inscindibilità di tradizione e critica, cioè sul rispetto non idolatrico della tradizione, di una tradizione costantemente interpretata, ovvero vivificata dallo studio dei testi, in primo luogo della Torah. L’ebraismo diasporico è dunque una civiltà che ha fatto della condizione di minoranza un punto di forza, quasi che le alte probabilità, in termini banalmente numerici, dell’assimilazione, abbiano prodotto un aumento della resistenza, o meglio della duttilità, visto che la salvaguardia dell’identità non ha preso la scorciatoia della chiusura, dell’ignoranza e del fanatismo, bensì la via – rischiosa eppure necessaria – dell’osmosi e del dialogo con le culture circostanti, e della laicità, cioè del rispetto delle leggi locali, in linea con il principio talmudico “La legge dello stato (in cui si vive) è legge”, Dinà demalkhutà, dinà. Cambiare è stato il modo paradossale, e per questo forse incompreso e avversato da una parte del mondo ebraico, che gli ebrei della Diaspora hanno trovato per sopravvivere senza snaturarsi, cioè senza rinunciare alla libertà su cui si fonda ogni forma di conoscenza. È questo il significato profondo del dialogo. Per questo il dialogo è la nostra storia.
La centralità del testo e della tradizione, più ancora di Eretz Israel, è detta con chiarezza e semplicità nel libro Jews and Words scritto da Amos Oz con sua figlia Fania: «La nostra cultura è fatta di dispute, disaccordi, discussione… Per migliaia di anni, noi ebrei non abbiamo avuto altro che libri. Non abbiamo avuto terre, non abbiamo avuto luoghi santi né bellissime architetture, non abbiamo avuto eroi. Abbiamo avuto libri, abbiamo avuto testi, e quei testi erano la discussione continua intorno al tavolo della famiglia. Essi sono diventati parte della vita familiare e sono passati da una generazione a un’altra – non modificati, non modificabili, però reinterpretati da ogni generazione e letti di nuovo da ogni generazione». Oggi io penso che dovremmo interrogarci su dove sia finita quella “famiglia” in senso lato, invece di passare il tempo a dibattere su chi è più ebreo di chi.
Dunque siamo arrivati al punto dolente. La civiltà di cui parlavo, oggi, a mio avviso, corre il pericolo di essere avvilita. Bisogna salvare la tradizione dai tradizionalisti. Userò come scudo le parole di Walter Benjamin in “Tesi di filosofia della Storia”: «In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla». Si affaccia così l’eterna questione delle Comunità più o meno chiuse e rigide. Ma questo, per fortuna, non è tema all’ordine del giorno.
Concluderei accennando al fatto che Diaspora, per alcuni, forse per troppi, è diventata anche ossessione nazionalista. Quasi che essere israeliani o difendere il governo di Gerusalemme sempre e comunque sia “più” che essere ebrei, ebrei che guardano a Israele con infinito amore, ma reputano alcune sue scelte politiche, appunto, criticabili. Israele non può divenire il nuovo vitello d’oro. Perché esiste nell’ebraismo un rigetto radicale dell’idolatria e un sacrosanto diritto di lottare, innanzi tutto con l’arma della libera critica, per farsi padroni del proprio destino. Con il clima odierno questa grande chance è a rischio. La parola, volatile e viva, rischia, insomma, di rimanere schiacciata sotto zavorre ideologiche, prigioniera di culture della terra e del sangue, il che, in àmbito ebraico, sarebbe un triste paradosso della storia. La postmodernità e la globalizzazione hanno prodotto una ossessione identitaria, una fissazione su presunte appartenenze tribali che mette in discussione la stessa categoria di cittadino. E una volta annullata la cittadinanza, l’ebreo torna a essere vittima predestinata di ogni demagogo, di ogni fede trionfante, di ogni populismo in cerca di facili consensi. E molti ebrei, anch’essi convinti che la crisi della modernità non possa che risolversi nel ritorno in seno all’identità assoluta e tribale, in realtà lavorano per i loro potenziali carnefici futuri.
Ho apprezzato molto le parole della presidente dell’UCEI Noemi Di Segni quando sostiene che l’interesse suscitato dalla nostra storia, dalla nostra cultura, che ogni anno attira un grande pubblico nelle sinagoghe e nelle Comunità, «è un segnale bello e importante, da ricordare ogni volta che leggiamo notizie allarmanti relative al pregiudizio e al razzismo, anche nei confronti dei migranti che con occhi pieni di speranza approdano sulle nostre coste. Con quali terribili difficoltà attraversano mari e deserti? Cosa trasmettiamo loro, del nostro lungo vissuto? Siamo di fronte a un fenomeno epocale, che ci costringe a confrontarci con il rispetto per l’Altro, con l’importanza di imparare la conviveßnza nella diversità».
Io ho finito, e vi ringrazio per la pazienza. Spero di avere minimamente soddisfatto l’augurio bellissimo che tempo fa ricevetti da un mio Maestro: «Che tu possa portare tanto di quel nuovo, a riparo dell’antico».

Stefano Jesurum, giornalista

(14 settembre 2017)