Italia-Israele, una mostra
per indagare la pittura di oggi
La distanza delle ragioni. Questo il titolo della doppia personale curata da Giorgia Calò, che affianca le ricerche di due pittrici, l’israeliana khan Shish (Safed 1970) e l’italiana Veronica Botticelli (Roma 1979), in mostra alla galleria Anna Marra Contemporanea fino al 21 ottobre. Un nuove ponte nel segno dell’arte tra i due paesi: un fronte su cui la curatrice lavora assiduamente da tempo. Una mostra che nasce dal desiderio di indagare alcuni aspetti che muovono la pittura oggi.
Entrambe le artiste, racconta Calò, che è anche assessore alla Cultura della Comunità ebraica romana, lavorano su grandi formati e usano il disegno su carta a complemento delle rispettive ricerche. Mentre Shish guarda con attenzione l’espressionismo tedesco e la Transavanguardia (ha vissuto alcuni anni a Berlino e a Roma), nonché ai canoni della vecchia generazione della pittura israeliana, Botticelli si rifà invece ad una tradizione tutta italiana o più precisamente romana, dalla Scuola di Piazza del Popolo alla Scuola di San Lorenzo. Entrambe però si affidano ai luoghi segreti del ricordo dove andare a scavare, per far emergere parti del loro subconscio espresso nei piccoli indizi sparsi sulla tela.
La pittura di Khen Shish è inoltre “carnale, si fonda su ordine e disordine in cui si alternano colore e segni violenti, immagini iconiche e aniconiche, forma e astrazione”. L’artista odia le cornici e tutto ciò che può contenere, delineare, sostenere entro confini stabiliti la sua pittura debordante. Le opere di pura fantasia sembrano così vie di fuga dalla realtà. “A volte ci conducono in luoghi fantastici, altre volte sembrano le scenografie di un incubo”.
L’iconografia di Veronica Botticelli, invece, si risolve in un unico tema dalle mille sfaccettature, dai mille significati. Si tratta delle famose Singer, “quelle che usavano le nostre mamme e nonne per cucire”. Simbolo per eccellenza di una certa femminilità, forse perduta, e della manualità che suggerisce l’atto creativo. L’artista sembra aver congelato l’immagine, facendola emergere da uno sfondo strutturato su grandi campiture di colore, su cui interviene applicando carte che diventano un tutt’uno con la tela. “Veronica – spiega Calò – sceglie volutamente questo oggetto per la sua forte carica poetica, facendolo così assurgere al ruolo di custode di ricordi, personali e collettivi, in cui si mescola il nostalgico pensiero che ci troviamo davanti un’opera capace di suggerire l’incanto di un tempo perduto”.
La mostra è patrocinata e realizzata con il contributo dell’Ambasciata di Israele in Italia – Ufficio Culturale e della Fondazione Italia Israele per la Cultura e le Arti.
Di seguito il testo di Giorgia Calò pubblicato nel catalogo edito da Gangemi.
(Nell’immagine Veronica Botticelli – Tecnica mista su carta)
La distanza delle ragioni
Negli ultimi anni le mostre di pittura hanno aperto sempre con il solito quesito: perché seguitare a dipingere, quando ci sono tanti linguaggi artistici diversi? Pur continuando a chiederci ormai da decenni se la pittura abbia esaurito le proprie potenzialità, bisogna ammettere che oggi sta vivendo una grande epoca, in quanto mezzo espressivo tradizionale capace di contenere in sé un ruolo sovversivo che si oppone al regime visivo generale. L’incontro tra il figurativo e l’astratto sembra in questo senso vitale e naturale e ha raggiunto un suo straordinario equilibrio attraverso le ricerche degli artisti contemporanei, capaci di rivolgere il loro sguardo su nuove forme e astrazioni.
Questa mostra, già dal titolo svela l’idea che vi è alla base: individuare e comprendere le distanze che separano le ricerche di due pittrici, Khen Shish (nata a Safed, in Israele nel 1970) e Veronica Botticelli (nata a Roma, nel 1979), spiegandone le ragioni che muovono i diversi processi artistici. Entrambe lavorano su grandi formati e usano il disegno su carta a complemento delle rispettive ricerche. Shish guarda con attenzione ai Nuovi Selvaggi tedeschi con il loro ritorno alla pittura fatta di aggressività e furore espressi nel gesto pittorico, alla Transavanguardia e il loro eclettismo stilistico (non è un caso che abbia vissuto per alcuni anni a Berlino e a Roma), nonché ai canoni della vecchia generazione della pittura israeliana: dalla linea fremente di Lea Nikel (1918-2005) caratterizzata dall’audacia delle sue misture cromatiche, al tratto selvaggio e violento di Moshe Gershuni (1936-2017), fino alle figure simboliche di Tsibi Geva (1951). Botticelli si rifà invece ad una tradizione tutta italiana o per meglio dire romana, dalla Scuola di Piazza del Popolo, i cui protagonosti tendevano a considerare la superficie pittorica come uno “schermo” su cui riflettere la vita moderna fatta di immagini e oggetti rappresentativi, alla Scuola di San Lorenzo con le loro ricerche verso nuove soluzioni, anche nell’uso di materiali eterogenei pur mantenendo il disegno, la pittura e la manualità leitmotiv del loro operato. Entrambe le artiste, dunque, hanno un back round che rimanda agli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, decennio, quest’ultimo, in cui la ricerca artistica ha generato una pittura neo-espressionista, carica di contenuti simbolici. Per entrambe il dipinto si evolve attraverso un vigore staccato da ogni realtà mediante un linguaggio evocativo capace di lasciarsi andare ad associazioni illogiche.
Prima di analizzare le rispettive peculiarità, continuerei ad approfondire le affinità che ho potuto costatare addentrandomi nella ricerca di queste due artiste, apparentemente così diverse. Caratteristica costante di entrambe è la continua ridefinizione dell’immagine, come se non fossero in grado di arrestare l’esecuzione e considerare il lavoro terminato. In questa processualità c’è un senso estremamente femminile e materno di approccio con l’opera: c’è un tempo di gestazione, un rapporto quasi simbiotico, il trauma del distacco. Nel loro modo di fare pittura le accomuna inoltre la gestualità, intuitiva quella di Khen, più riflessiva quella di Veronica. Entrambe si affidano ai luoghi segreti del ricordo, dove andare a scavare per far emergere parti di sé. Sono piccoli indizi, quelli sparsi sulla tela, che tendono a svelare lati del loro subconscio espresso in automatismi.
La pittura di Khen è carnale, si fonde su ordine e disordine in cui si alternano colore e segni violenti, immagini iconiche e aniconiche, forma e astrazione. Odia le cornici e tutto ciò che può contenere, delineare, sostenere entro confini stabiliti la sua pittura debordante. Le sue opere di pura fantasia sembrano vie di fuga dalla realtà, a volte ci conducono in luoghi fantastici, altre volte sembrano le scenografie di un incubo. Questa del resto è la natura dell’essere umano fatta di gioia e dolore, angoscia e felicità, sembra voler suggerire l’artista.
L’iconografia di Veronica Botticelli, invece, si risolve in un unico tema dalle mille sfaccettature, dai mille significati. Si tratta delle famose Singer, quelle che usavano le nostre mamme e nonne per cucire. Simbolo per eccellenza di una certa femminilità, forse perduta, e della manualità che suggerisce l’atto creativo. L’artista sembra aver congelato l’immagine per vivere in un articolato sistema di segni, affiorando da uno sfondo strutturato su grandi campiture di colore su cui interviene applicando carte che diventano un tutt’uno con la tela. In questo modo l’immagine viene restituita al pubblico come un oggetto custode di ricordi, personali e collettivi. Il processo femminile di Khen si evince invece nella tecnica che usa spesso l’intarsio su carta applicato come fosse una trama, una veste, un piumaggio. Tuttavia in entrambe quello che emerge è la spontaneità visiva che nasce da un lavoro sulla memoria e sull’immaginazione, atta a definire singolari spazi mentali e che prende forma da ricordi, tracce e colori.
E a proposito del colore, questo è un altro elemento che caratterizza le artiste in maniera diversa. Khen predilige il nero che definisce “il colore più bello del mondo”, identificandolo con la sua stessa pittura. Come sappiamo non mancano nella sua tavolozza i colori accesi come il rosa sgargiante o il rosso (entrambi molto “femminili” anche se in maniera diversa), ma anche l’oro brillante che fa da contraltare alla violenza del nero. Tuttavia quest’ultimo resta sempre il leitmotiv indiscusso, ci obbliga ad entrare nell’immagine, ad analizzarne centimetro per centimetro, a verificarne il processo di trasformazione nell’astrazione del segno, o vice versa è proprio il nero a tramutarsi in immagine. I colori di Veronica sono invece più “pacati”. I verdi e i turchesi che strutturano lo sfondo in tante campiture tonali diverse, servono all’artista a isolare e far risaltare l’oggetto preso a prestito da un retaggio culturale popolare, spesso di matrice romana (penso in questo senso anche alla produzione dei Gazometri del 2013). Il colore di Veronica si dilata dunque nel traguardo di grandi superfici pittoriche matericamente dense ma distese da cui affiorano poche immagini che rivelano situazioni emotive dalle sfumature simboliche.
Un’ultima distanza che separa le due artiste è la scelta dei titoli. Quelli di Khen Shish danno un senso di completezza imprescindibile per la ricezione dell’opera pittorica nella sua narrativa. A questi fanno da contraltare i voluti silenzi di Veronica Botticelli che decide di non titolare i suoi lavori, come se non ci fosse altro da aggiungere, come se fosse tutto detto e risolto nel colore, nei segni che affiorano in immagini, nel decorativismo dello sfondo appena percettibile. Della collezione esposta solo un’opera presenta un titolo, tanto enigmatico quanto rivelatore del percorso che ha voluto tracciare l’artista. Si tratta dell’opera più grande per dimensioni di tutta la mostra che Botticelli ha chiamato Autoritratto. Sempre lei, dunque. Tutto quello che esce dalla sua mente e che si concretizza attraverso la sua mano è parte di lei. In questo senso è rilevante parlare di una mostra che Veronica tenne nel 2013 da Anna Marra Contemporanea. Il titolo era Sono tutto quello che vedo, scelto espressamente dall’artista, aveva il merito di restituire immediatamente l’idea di ciò che il pubblico avrebbe visto attraverso il suo sguardo. Non servono altre spiegazioni, non c’è bisogno, sembra suggerirci Veronica, di didascalie che possano in qualche modo viziare il processo di fruizione tra lo spettatore e l’opera. Diametralmente opposta è la scelta di Khen. I titoli pensati dall’artista sono pugni nello stomaco, violenti ed espressivi quanto i colori usati, i tratti neri che sembrano recidere la tela, le immagini apparentemente astratte che si tramutano di volta in volta in occhi, cuori, uccelli. Hundreds of Miles of Pain (raffigurante una sorta di albero nero dalle cui radici emerge un occhio infuocato), Crazy Mamma e I Crawled all the Way to You (due carte di grandi dimensioni realizzate con tecnica mista e collage, rappresentano due figure zoomorfe che emergono dal colore, prevalentemente nero, violento e trasbordante in tante colature che oltrepassano i limiti posti dalla stessa artista in una falsa cornice), I Have Overlooked Many Things (una carta di medie dimensioni realizzata sempre con la tecnica del collage dove il rosa acceso che fa da sfondo contrasta con la figura nera, scandita da una sorta di piumaggio di carta che suggerisce l’immagine di un uccello). Tutti questi sono titoli emblematici, usati dall’artista per convincere lo spettatore che sta parlando di se stessa. È lei che “striscia” per qualcuno, che “trascura” molte cose, è lei la “mamma pazza” di una bimba bellissima di cui parla sempre. È ancora lei dietro quel I Didn’t Have the Heart to Wake You, per citare il titolo di una sua mostra (Gordon Gallery, Tel Aviv 2013). I silenzi di Veronica e le grida di Khen, dunque, si esprimono anche nel linguaggio, nella parola detta o taciuta, con l’unico scopo di rivelare una parte della propria anima, di ricostruire una propria archeologia autobiografica.
Vista la mostra nel suo insieme, riusciamo ora a comprenderne la ragione critica, dando un significato a una comparazione sicuramente ardita ma non senza logica. I principi su cui si strutturano le opere di Khen e di Veronica sono diametralmente opposti. Se l’artista israeliana tende a liberarsi dall’iperpresenza del colore attraverso forme vegetali ed animali, in stretto dialogo con il collage grazie al quale l’opera acquista una certa tridimensionalità; Botticelli parte da un’immagine inanimata, la macchina da cucire, per condurre lo spettatore nel punto focale, il colore che vibra nelle diverse sfumature verdastre. Per giunta il collage, viene applicato da Veronica in tutt’altro modo, diventando tutt’uno con la tela e perdendo così la sua qualità plastica in un voluto appiattimento del volume.
Per concludere, i lavori di Botticelli e Shish, benché abbiano alcune affinità che abbiamo avuto modo di verificare precedentemente, seguono due percorsi antitetici, presentando, ciascuna a suo modo, una affascinante miscela di emozioni contraddittorie, senza mai contestualizzare la loro narrativa in un luogo e tempo preciso. È una pittura densa di emozioni, dal carattere fortemente gestuale, capace di impressionare lo spettatore e sfidarlo intellettualmente, pur mantenendo un linguaggio visivo universalmente comprensibile.
Nelle differenze che caratterizzano queste due artiste va sottolineato che entrambe sono fortemente coscienti dello spazio pittorico su cui agiscono. La tela, così come la carta, si trasforma sotto le loro mani, diventa un campo d’azione in cui agire per mezzo delle pennellate libere, delle sbavature, delle colature, dei ripensamenti, al fine di far emergere i sentimenti, le emozioni, l’inconscio. In questo senso possiamo dire che la pittura contemporanea, scevra dai meccanismi concettuali che hanno caratterizzato tanta arte del XX secolo e continuano in parte a influenzare le ricerche di oggi, incontra nuove esigenze esprimendo la dualità tra immagine e non immagine, astrazione e figurativo, in una situazione indubbiamente mutata rispetto agli anni Settanta e Ottanta, ma che continua ancora a far parlare di sé.
Giorgia Calò – Catalogo Gangemi
(20 settembre 2017)