Fiat veritas, et pereat mundus

vercelliAfferma una oramai proverbiale (ed anche un poco inflazionata, quanto meno nelle citazioni, ma in questo caso la licenza ce la prendiamo lo stesso) Hannah Arendt in «Verità e politica» che: «Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista». Più che cinica sarebbe il caso di riconoscere che l’affermazione della filosofa sia realista, senz’altro al limite dell’impietoso. Poco più in là, nel medesimo testo, aggiunge: «Probabilmente nessuna epoca passata ha tollerato tante opinioni diverse su questioni religiose o filosofiche; la verità di fatto, però, qualora capiti che si opponga al profitto o al piacere di un dato gruppo, è accolta oggi con un’ostilità maggiore che in passato». Forse, per ragionare sulla cosiddetta “post-verità” (qualora esista), sulla «Misinformation» e quant’altro partendo da qualche riscontro storico – più che pensare che l’età che stiamo vivendo sia di per sé (e in sé) eccezionale, magari nel senso più deteriore dell’espressione – sarebbe bene riprendere in mano la pensatrice germano-statunitense, insieme ad un’altra figura del pensiero contemporaneo, soprattutto quando quest’ultimo afferma che: «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Le bufale esistono soprattutto perché si vuole credere ad esse. Sono come una specie di verità parallela, una sorta di risarcimento temporaneo, un sogno possibile perché desiderato che si trasforma, ben presto, in incubo. Non è vero che la realtà, con essa anche la politica (cosa diversa dalla «verità» come tale), sia necessariamente inconoscibile, sommersi come saremmo da un eccesso di sollecitazioni. Semmai è lo sguardo che vogliamo rivolgere ad essa che muta, risultandoci spesso insostenibile. Abbiamo pertanto bisogno sempre più spesso di trovare un qualche rifugio consolatorio. Un po’ come chi va pensando che abbattere una statua commemorativa o celebrativa serva a rafforzare il senso del radicamento nel presente. Viene spesso in mente che la «rimozione» è, per le scienze della mente, quel processo che allontana dalla coscienza desideri, pensieri o residui di memoria considerati inaccettabili e intollerabili dall’Io, e la cui persistenza provocherebbe un senso di vergogna. Ci fingiamo quindi “ignoranti” quando ci occorre di trascurare ciò che ci angoscia, impedendoci di vedere oltre un orizzonte che non sia quello dei timori senza risarcimento. Salvo poi rischiare un brusco risveglio. Se non affronti la realtà sarà lei a imporsi a te medesimo. Più prima che poi.

Claudio Vercelli

(24 settembre 2017)